La Stampa, 24 agosto 2024
Intervista a Elena Granata, urbanista
Chiudete gli occhi e immaginate la vostra città ideale. Probabilmente avrà molto verde, prati e alberi, panchine dove amoreggiare e chiacchierare, piazze e cortili dove i bambini possono giocare, piscine pubbliche, trasporti gratuiti, luoghi dove poter fare sport all’aperto, piste ciclabili. Adesso potete riaprire gli occhi: quella che avete davanti è una realtà molto diversa. Cemento, pietra, asfalto, ogni centimetro occupato da macchine, dehors e tavolini. Elena Granata, docente di Urbanistica al Politecnico di Milano, questa città la immagina da tempo, ne ha analizzato i vari aspetti nei libri che ha scritto (Biodivercity, Giunti, 2019; Placemaker, Einaudi 2021; Il senso delle donne per la città, Einaudi 2023) e ne parlerà domenica primo settembre al Festival della Mente (Ore 10.45, Teatro degli Impavidi, insieme con Annalisa Metta, ordinaria di Architettura del Paesaggio dell’Università Roma Tre).
Lei accusa le città di essere diventate centri commerciali.
«Sono partita analizzando le abitudini dei giovanissimi, i miei figli e i miei studenti. Hanno ormai interiorizzato il fatto che o consumi o non esisti. Nelle città tutto ciò che hanno intorno è a pagamento: i mezzi pubblici, la palestra, il divertimento, il tempo libero».
Come è potuto accadere?
«Uno: la privatizzazione dello spazio pubblico. Due: lo spazio pubblico diventa spazio di consumo. Tre: l’idea di decoro, per cui non devi vedere niente di sgradevole, che siano giovani accampati o senza fissa dimora».
Esempi?
«Ne sono piene tutte le città italiane. I dehors nati con il Covid hanno colonizzato le piazze diventate bar a cielo aperto. A Milano questa attitudine allo spazio commerciale ormai è dilagante. Sono state chiuse anche molte delle classiche fontanelle da cui si poteva bere gratis, quindi anche l’acqua è a pagamento. Per bere devi andare al bar. Lo stesso vale per le piazze e per il sagrato delle chiese: non si può sedere all’ombra senza pagare».
Qual è la città peggiore?
«Difficile dire. Milano sicuramente è molto peggiorata negli ultimi tre o quattro anni. Le faccio un altro esempio: il verde ormai è condominiale, gestito da privati, che pagano la manutenzione e scrivono le loro regole di ingaggio e di utilizzo; niente skate, niente calcio, niente bici. Quindi quel prato non è più un vero prato. Ma va male anche nelle città d’arte: penso a Firenze dove l’unica piazza della città dove ci si può sedere gratis all’ombra è Santo Spirito. E lo stesso vale per le città balneari, per quelle lacustri: sul lago di Como non esistono più accessi al lago che non siano tramite un medium privato».
Ci sono esempi virtuosi?
«Genova. L’amministrazione di centrodestra, in controtendenza, ha fatto un esperimento per cui in alcune fasce orarie di punta i residenti si possono muovere gratuitamente sui mezzi pubblici. Ha funzionato benissimo, specie per i giovani. Anche molte città spagnole hanno lavorato su questo aspetto».
C’è una città ideale, un riferimento a cui mirare?
«Città ideali non esistono. Però cito Barcellona. Già nell’Ottocento Ildefonso Cerdà pensò a un incrocio di ottagoni. Questo la rende una città dove lo spazio pubblico, il vuoto, la piazza è più importante dello spazio privato. Non ci sono grandi spazi come Central Park a New York o le piazze parigine, ma piccoli spazi diffusi e questo sarebbe l’esempio da seguire».
Lei ne fa anche una questione di qualità dello spazio pubblico.
«È chiaro che se Milano costruisce i grattacieli nei cortili delle case per fini economici, le città diventano dei forni caldi e inaccessibili. La qualità vuol dire anche la differenza tra vivere e sopravvivere, tema sempre più importante per il riscaldamento climatico».
Cosa si dovrebbe fare per rendere questi spazi pubblici più vivibili?
«De-pavimentare. Togliere la pietra, l’asfalto e tornare il più possibile allo sterro, ovvero la terra battuta, il prato e le alberature per assorbire l’acqua ed evitare allagamenti, stoccare anidride carbonica e abbassare temperature».
Quindi la città del futuro deve guardare al passato?
«Esatto. Oggi abbiamo gli strumenti, sappiamo come fare, ma queste soluzioni sono ancora culturalmente inaccettabili, perché abbiamo il mito delle città di pietra del Quattrocento. Anche se non è vero che erano di pietra, perché le strade e le piazze allora erano a sterro».
Su questo si trova d’accordo con Stefano Mancuso, che predica di togliere auto e piantare alberi per evitare di morire arrostiti nell’asfalto.
«Guardi, non ci vuole una laurea allo Ied per capire delle cose molte semplici: bisogna togliere materiale caldo dalle città. È una delle domande classiche che faccio ai miei studenti: d’estate andreste scalzi sull’asfalto? No, ma ci andreste sul legno, sull’erba, sullo sterrato. Le soluzioni sono molto semplici».
È la politica il problema?
«La politica è opportunista. Non cambierà per ragioni etiche o ambientali, ma perché conviene. Le faccio l’esempio di Biella, che ha cambiato la sua politica urbanistica perché l’Ue dà grossi incentivi alle amministrazioni locali per depavimentare. Così adesso depavimentano. E altri seguiranno. Certi temi passeranno per necessità e per interesse economico, non per virtù. Ma ho fiducia nella società civile, che può far molto per denunciare interventi fatti male».
Invece per ora mi pare che si continui a costruire.
«Ci sono in giro molti progetti tronfi, autoreferenziali, di architetti di seconda fila che vogliono lasciare il proprio nome su opere assurde. Cascina Merlata a Milano tra vent’anni sarà come le Vele. Non c’è una scuola, non c’è una chiesa, non c’è un centro medico, non ci sono negozi, c’è un unico centro commerciale gigante. Non hai il panettiere sotto casa. Mi dicono che è la città del futuro. Io dico no, che la città del futuro non avrà quell’aspetto lì. Non i grattacieli, non i centri commerciali: i grandi architetti sono quelli che avranno il coraggio di fare gli hospice, le carceri, quelli che si occuperanno della dignità delle persone negli spazi che abitano».
Il suo ultimo libro parla di donne: il fatto che siano state sempre escluse dalla progettazione delle città, le rende i soggetti perfetti per pensare le città del futuro.
«Penso che le donne siano utili non in quanto donne, ma perché il nostro sguardo marginale ci ha consentito di elaborare un pensiero laterale che è quello che serve oggi. Non dobbiamo rifare il mondo, ma sistemarlo. Sono le donne a muoversi con figli, con gli anziani, con le valigie, con la pancia da incinte. Per questo conoscono meglio i difetti delle città. Il mio prossimo libro sarà dedicato a un tema molto femminile: la sala d’attesa, uno spazio pubblico abitato principalmente dalle donne, che accompagnano all’ospedale, al pronto soccorso, eccetera».