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 2024  agosto 24 Sabato calendario

«Mi hanno detto di bruciare le case dei civili palestinesi»

Kadima, Israele – «Sono stato cinquanta giorni a Gaza, da soldato, ti guardi a destra, a sinistra e vedi solo distruzione, tutto è in rovina, non ci sono strade, tanti ospedali e università sono stati distrutti. Non ci sono parole per spiegare la quantità di danni e questo non si può giustificare. Credo che il motivo per cui sto rilasciando interviste ora, il motivo per cui sto parlando pubblicamente sia che voglio chiedere alle persone di aiutarmi a spingere a firmare un accordo di cessate il fuoco, per poter porre fine a tutta questa morte intorno a noi».Da ragazzo Yuval Green non aveva dubbi. Sarebbe stato un buon soldato, avrebbe eseguito i suoi doveri perché è così che ogni ragazzo e ogni ragazza israeliano cresce: imparando che una delle parti più importanti della vita sarà far parte dell’esercito. Suo padre era un paracadutista, è stato un ufficiale per molto tempo, e Yuval, come tutti, ha ascoltato i racconti sull’esercito fin da quando era bambino. Per questo, col tempo, non ha solo desiderato di essere un soldato combattente, ma di far parte di una delle unità speciali. Prima è finito in Marina e poi, come suo padre, nei paracadutisti. È poi diventato il paramedico della sua unità.Alla fine di giugno, dopo cinquanta giorni dentro Gaza, Yuval Green ha deciso di lasciare l’esercito. Pochi giorni, insieme ad altri 40 riservisti, ha firmato una lettera aperta per dichiarare che non avrebbe più continuato a prestare servizio nelle operazioni a Rafah, nella parte meridionale della Striscia di Gaza: «I sei mesi in cui abbiamo preso parte allo sforzo bellico ci hanno dimostrato che l’azione militare da sola non riporterà a casa gli ostaggi – si legge nella lettera -. L’invasione di Rafah, oltre a mettere in pericolo le nostre vite e quelle degli innocenti a Rafah, non riporterà indietro vivi gli ostaggi. Pertanto, dopo la decisione di entrare a Rafah piuttosto che concludere un accordo sugli ostaggi, noi, riservisti uomini e donne, dichiariamo che la nostra coscienza non ci consente di dare una mano a perdere la vita degli ostaggi e a boicottare un altro accordo».I firmatari sanno che la loro posizione è un’eccezione nell’esercito. Impopolare prima del 7 ottobre, irricevibile oggi per gran parte della società israeliana.Lo sa anche Yuval Green che, se chiamato di nuovo, non ha intenzione di presentarsi di nuovo per il servizio di riserva. Yuval, che non si cura delle sanzioni a cui potrebbe andare incontro, perché, dice, non rischia la vita, ma lo status sociale e «come mi sono sacrificato per il servizio militare, così ora mi sacrificherò per la mia coscienza».Yuval ha incontrato La Stampa nella casa dei suoi genitori a Kadima, una cittadina fondata negli Anni Trenta da coloni emigrati dalla Germania. In casa le sorelle, sua madre e molti libri, a riempire gli scaffali testi sulle tradizioni palestinesi, sulla storia e i costumi della Palestina.«Sono entrato nell’esercito credendo che fosse la cosa giusta da fare. Solo dopo aver terminato il servizio militare regolare ho cominciato a mettere in discussione tutto, a chiedermi se essere parte dello stato di occupazione fosse davvero giusto». Ha cominciato a pensarci a Hebron, in arabo al-Khalil. È lì che ha cominciato a capire che servire l’esercito fosse per lui completamente sbagliato. È lì che ha guardato l’occupazione negli occhi. «Hebron è una città occupata, è completamente palestinese, a eccezione di alcuni quartieri israeliani che stanno cancellando la vita delle persone intorno. È ancora più chiaro che in altri posti della Cisgiordania perché vedi ogni giorno come la segregazione e i coloni influenzino le vite dei palestinesi. E non puoi ignorarlo». Lui, almeno, non ha potuto. Pensa di essere stato più gentile degli altri, con i palestinesi che incontrava, ma «ero comunque parte del sistema che stava sottraendo la loro terra». I suoi dubbi non facevano che crescere, così alla fine di settembre Yuval Green ha deciso di scrivere una lettera per i suoi amici nell’unità. Voleva inviarla l’8 ottobre, il giorno dopo la fine della festa di Simhat Torah. Poi il 7 ottobre ha cambiato tutto, ha rimesso i suoi dubbi nel cassetto e Yuval si è messo a disposizione dell’esercito. Ha pensato che fosse necessario essere presente, che fosse suo dovere. È stato richiamato, è andato in uno dei magazzini militari, si è equipaggiato e si è unito di nuovo alla sua unità. Si è addestrato per un paio di mesi e poi, alla fine di novembre, è entrato a Gaza.Quando è iniziata l’offensiva militare, Yuval Green pensava che l’equazione fosse semplice: vanno liberati gli ostaggi e quindi tutto sarà molto breve. Poi ha capito di aver calcolato male tutto. Tempi e intenzioni del governo. La linea rossa è arrivata durante la sua missione a Khan Younis, quando il suo comandante ha chiesto ai soldati di incendiare una abitazione civile. Green ha chiesto il motivo di quell’ordine ma la risposta non è stata sufficiente: «Tutto ruota attorno a come le cose appaiono dal punto di vista israeliano. Israele cerca sempre di spiegare le proprie azioni dicendo che tutto ciò che fa a Gaza è per uno scopo militare». Green non capiva la ragione operativa, strategica di quell’ordine. Ha chiesto se ci fossero prove che appartenesse ad Hamas, il comandante ha risposto che bisognava essere sicuri che non ci fosse attrezzatura militare, Yuval ha risposto che quello non era un motivo ragionevole per bruciare una casa «fondamentalmente, quello che il comandante mi ha detto era che stavamo bruciando ogni casa o distruggendo ogni casa. Io ho detto “questo è folle”, andiamo in così tante abitazioni, come possiamo distruggere le case di così tante persone?». Ha capito, in quel momento, che per il suo comandante fosse «scontato» dare alle fiamme quell’edificio, «penso che questo sia un esempio di come Israele giustifichi le sue azioni con motivazioni militari. Molte volte queste motivazioni sono corrette, stanno cercando di raggiungere degli obiettivi, ma molte volte non è dato sapere se queste motivazioni sono realmente di carattere militare o se sono animate da vendetta o motivazioni brutalmente ideologiche».Quando ha parlato col suo comandante, Yuval Green, ha pensato che le motivazioni che gli dava avessero più a che fare con la vendetta che con la strategia militare. A rafforzare la sua scelta anche la condotta dei soldati. Vedeva persone intorno a sé lasciare graffiti, insulti, sulle macerie delle abitazioni dei gazawi, infliggere danni inutili a cose e case, portare via i “souvenir dalle case arabe”. Era per lui tutto inaccettabile, si opponeva continuamente. Nessuno della sua unità, dunque, è rimasto sorpreso quando Yuval andato via. Come lui non è rimasto sorpreso nel vedere cosa stesse accadendo alla società israeliana dopo il 7 ottobre, perché erano sentimenti che covavano da tanto tempo. Tutti i suoi amici reagivano in modo orribile, demonizzando i palestinesi, sostenendo che la modalità dell’offensiva fosse la sola possibile perché non esistono innocenti a Gaza. Che la soluzione fosse, in sintesi, ucciderli tutti. Cose che non aveva mai sentito prima, non così, pubblicamente e senza pudore, opinioni che, un tempo molto estreme, sono diventate improvvisamente comuni, normali. Era sconvolto ma non stupito perché molte persone pensavano anche prima del 7 ottobre che i palestinesi dovessero essere espulsi da Gaza. Solo che ora hanno cominciato a dirlo pubblicamente: «Quando le persone dicono che non ci sono innocenti a Gaza, penso sia corretto dire che non esistono innocenti in tutto il conflitto. Se vai in una casa israeliana e apri un armadio trovi un’uniforme dell’Idf, l’esercito israeliano cerca di proteggere il Paese dagli attacchi ma allo stesso tempo siamo parte del sistema che sta cercando di occupare la Palestina. Siamo tutti coinvolti e non possiamo continuare con la disumanizzazione delle persone di Gaza. Hanno il diritto di vivere esattamente come noi. E chiunque cerchi di minare sotto questo diritto sta facendo male a sé stesso e alle persone che stanno cercando di trovare pace in questo conflitto. È tutto molto chiaro: se non usciamo da Gaza moriranno molte altre persone. E questo crea semplicemente le prossime generazioni che saranno furiose con Israele. Non stiamo facendo bene a noi stessi e non stiamo facendo bene ai palestinesi».