la Repubblica, 24 agosto 2024
La serie tv Friends è ancora amata
Nel 2019 aveva scritto La televisione spiegata da Friends per i 25 anni dal primo episodio della sitcom andato in onda negli Usa a settembre 1994. Allora Luca Barra, docente di Televisione e media digitali all’università di Bologna e autore di diversi libri sul tema, spiegava perché Friends continuava a occupare «un posto speciale». Ora che gli anni sono diventati trenta, attraversando il lutto collettivo per la scomparsa di Matthew Perry il 23 ottobre 2023 e le notizie sul processo per la sua morte, c’è un nuovo anniversario da celebrare, ancora. Perché Monica, Chandler, Rachel, Ross, Phoebe e Joey continuano a esserci, nelle citazioni e nelle visioni. Persino nelle critiche – cast bianco, battute scorrette – la sitcom non è stata dimenticata. Ci si prepara ai festeggiamenti con gadget, ricordi, spezzoni, battute. E con l’apertura di nuove Friends Experience – quasi dei musei dove sono ricostruiti i set, si vedono oggetti di scena e costumi – da Londra a Las Vegas.
Come mai proprio Friends?
«Il successo di Friends dipende da tanti fattori. Per esempio è atemporale e dunque smussa l’attualità sociale e politica, poi paradossalmente diventa eccezionale proprio perché forse non è eccezionale, ma rappresenta “qualcosa di facile” nel senso alto del termine come scrisse il New York Times. Però caratteristiche come trasversalità, ripetibilità e persistenza sono tipiche della sitcom: noi in Italia mettiamo nello stesso mucchio tante cose diverse. In America la sitcom è più vicina al teatro, la serie tv più vicina al cinema».
Come nasce?
«La sitcom nasce a New York, c’è il pubblico in studio e ci sono le risate: nel contesto americano è stato il genere popolare per eccellenza insieme alle competizioni sportive. La sitcom è più banale, quotidiana: la si guarda senza troppo impegno e questo la rende trasversale. Friends è coerente con questo modello, e riesce a essere ancora più popolare, duratura e globale, perché è meno americana di tante altre. La capisci benissimo, è meno sofisticata ma universale: New York è stilizzata, sta sullo sfondo e questo ha dato alla sitcom la possibilità di circolare tanto nel mondo, e di perdurare nel mondo. Per Netflix America perdere Friends è stato un problema».
C’è una forte identificazione?
«Sì, perché anche tu hai passato quelle fasi, anche a te sono successe quelle cose. Friends è spostato tutto sulle emozioni: è sul diventare adulti, dal cazzeggio al fare famiglia. E il cast è perfetto, la prima stagione è diversa dalle altre, si vede il lavoro degli attori».
Anche questo spiega il coinvolgimento dopo la morte di Perry?
«Ovviamente dispiace che sia morto tra l’altro dopo un libro molto bello dove aveva confessato le sue dipendenze, ma in quei giorni non si è pianto l’attore, ma il personaggio, Friends è duraturo. Con la sitcom queste storie entrano nella vita quotidiana, spesso quando la riguardiamo la trama è in sottofondo, la tv ha questa capacità di punteggiare».
Friends è parente di Happy Days?
«In Friends c’è una New York stilizzata, simbolo dell’American way of life e c’è anche un’America idealizzata, quella della gioventù. In Happy Days è evidente il mito, ma anche in Friends rivediamo quell’America dolce, perfetta per quell’idea che ci siamo fatti degli Usa. Questa è una caratteristica della sitcom: la felicità».
Le serie tv non sono così?
«Tante di quelle che consideriamo di qualità e che vincono premi insistono su aspetti brutali e drammatici. Poter ricorrere a narrazioni a cui prestiamo meno attenzione ma ci danno sollievo è il vantaggio delle sitcom: infatti l’ennesima riscoperta di Friends è stata in pandemia, è la “comfort tv”».
Che cosa intende per trasversalità?
«Quella cosa che magari non accontenta fino in fondo nessuno ma dà qualcosa a tutti. Uno dei libri più belli e più utili per spiegare i media è Lo spirito del tempo di Edgard Morin, un saggio sull’industria culturale. L’adolescenza e la giovinezza come miti fondanti: raccontare quell’età della vita ti aiuta a essere vicino alle caratteristiche della cultura di massa, tra cui c’è anche l’immaginario di una gioventù che è costantemente messa al centro».
Poi c’è l’amicizia.
«Parla di rapporti studenteschi e post studenteschi, ma c’è anche l’idea di mettere in evidenza altri modelli di famiglia, cioè la famiglia che ti scegli. Gli amici: non è solo gente con cui bere, ma surrogati di famiglia, c’è una dimensione nella vita urbana perché sono coinquilini. Ma racconta anche a un pubblico largo un matrimonio tra due donne che hanno un figlio. Magari molte cose le scriverebbero diversamente, ma è una serie che si è potuta permettere uno sguardo progressista».
Chandler è il personaggio preferito. Perché?
«Perché è un po’ fuori posto e nel suo essere fuori posto reagisce con una ironia strana».
Ci sono state molte sitcom derivate da Friends?
«Quella linea è continuata con Big Bang Theory, Modern family, Abbott Elementary. L’industria ci sta provando a replicare questi universali, tutti ci siamo messi a guardare Netflix, che però per sua stessa natura non può costruire un successo come Friends, perché lì ci sono gli episodi tutti insieme e in un weekend hai finito. Per ora le piattaforme hanno risolto usando Friends come nuovo Friends».
E in Italia?
«L’Italia ha sempre avuto problemi con il comico puro, la sitcom che qui ha funzionato di più è Casa Vianello, più recentemente c’è stato Boris. In generale ho l’impressione che in Italia i conti con il comico non si facciano davvero mentre in America la comicità si aggancia in maniera sincera con la vita quotidiana, ci sono le imitazioni, ci sono le satire raffinate ma non popolari. Da noi c’è dentro tutto per accontentare tutti, comico e crime insieme, ad esempio».
I suoi allievi, oltre a studiarlo, lo vedono ancora?
«Tutti gli anni faccio fare loro un piccolo esercizio, mi indicano i programmi e poi le serie tv che preferiscono: Friends c’è sempre».
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