Corriere della Sera, 24 agosto 2024
La convention dem è retorica ma vitale
Non ero mai stato a Chicago. Eppure è da Chicago che ho ricevuto il mio primo pezzo d’America. Avevo nove o dieci anni quando mio padre partecipò a un convegno medico e mi portò come souvenir un gagliardetto dei Chicago Bulls.
Non giocavo a pallacanestro, non ne sapevo granché, ma erano gli anni di Michael Jordan e almeno questo lo sapevano tutti. Il gagliardetto era di una plastica lucida e aveva un odore specifico, di vernice. Chiesi a mio padre di appenderlo sopra la porta e lì è rimasto per anni. Non so cosa ne è stato né quando ho deciso di sbarazzarmene. Ma un po’ mi dispiace. Era l’America nella mia stanza, molti anni prima di vederla di persona.
Lo ammetto: dopo quattro giorni di convention mi sento contagiato dall’oratoria americana. Si comincia dalla famiglia, da un interno casalingo, ci si accredita attraverso gli affetti e soltanto dopo si allarga lo sguardo, per parlare di cose serie. Mio padre ha avuto un’estate difficile, piena di acciacchi. Vorrei portargli un souvenir, la cartolina di un bel panorama di questa America verso la quale nel frattempo sono diventato così ambivalente.
Allo United Center ho visto tanta paccottiglia e ho visto i delegati accaparrarsela con avidità, il cibo era orrendo e i discorsi pieni di affettazione, di retorica. Ma è stata anche una convention che le donne (non una donna) hanno trainato sul serio; dove la comunità nera è stata fieramente iper rappresentata, anche rispetto alla sua rilevanza elettorale; dove la retorica è stata anche uno sfoggio di capacità retorica. E dove all’essere degli «underdog» non si è accompagnato un revanscismo interminabile, ma un senso interminabile di possibilità.
Ci sono stati anche grani di verità inaspettati, attimi che mi hanno spezzato il cuore, soprattutto negli interstizi fra i discorsi dei big e soprattutto l’ultima sera: i cinque di Central Park accusati ingiustamente di stupro quando erano ragazzini soltanto perché neri, il figlio di Tim Walz che non trattiene l’emozione, come se fosse l’essere umano più sensibile nel raggio di chilometri; i sopravvissuti delle stragi nelle scuole accolti sul palco poco prima del finale, nella posizione più rilevante (forse la scelta più radicale della programmazione). Elephant, il film di Gus Van Sant che raccontava la strage di Columbine con uno stile unico, trasognato, è stato da ragazzo il mio incontro con il lato oscuro dell’America, e l’ho trovato rappresentato qui.
E poi, un altro merito va riconosciuto ai dem: l’arena era piena di gente. Delegati, certo, ma gente. Li guardavo ballare i Black Eyed Peas nelle panoramiche che scorrevano sul megaschermo. La democrazia americana, con la sua granularità, con la sua ossessione per la «community», è riuscita a mantenere più partecipazione della nostra. Il senso esatto dello slogan di Michelle Obama: «Do something!», smettila di lamentarti, fai qualcosa!
Più che un bilancio sulla salute del progressismo, la convention è stata un lavaggio del cervello («Let’s elect Kamala Harris as the next President of the United States!» ripetuto così tante volte da procurarmi una nausea vera e propria). Abbiamo assistito in diretta alla costruzione mitica di una Santa Guerriera, fra sentimentalismi e cliché. Ma è pur vero che l’indottrinamento ha funzionato. L’attesa, le centinaia di volte in cui è stato detto «Kamala» hanno creato un campo magnetico dentro l’arena. Se nelle prime tre serate avevo mantenuto il distacco, all’ultima è stato impossibile. Nei minuti che hanno preceduto l’arrivo di Harris sul palco il pubblico ha invaso ogni zona libera dell’arena, si sono riversati nei settori riservati alla stampa, scavalcando i nastri gialli del Secret Service. Aspettavamo di capire quel che avrebbe detto Kamala sul mondo, ma aspettavamo soprattutto Kamala. Anche se qualche sorpresa c’è stata, ormai sapevamo più o meno quel che avrebbe detto, potevamo quasi scriverle il discorso, ma volevamo lei. La frase fatidica con cui ha accettato formalmente la candidatura alla presidenza non si è nemmeno sentita nello United Center, il boato del pubblico l’ha sommersa.
Mi sono lasciato andare. Oppure sono stato vinto dall’indottrinamento. Comunque sia, sono uscito dallo United Center credendoci un po’ alle «endless possibilities», le possibilità infinite di Kamala Harris. Va riconosciuto che gli americani sanno ancora costruirlo quel senso di possibilità, almeno dentro un palazzetto, per il tempo necessario a una corsa elettorale.
L’ultima sera, la politica del progressismo americano è stata una festa, seppure una festa che potrebbe stabilire il paradigma dei prossimi anni. Non sarebbe bello se anche noi, i progressisti italiani, fossimo in grado di rimuovere quella patina di noia, di lamento, di distacco intellettuale, e organizzare ogni tanto una vera grande festa? Ecco la cartolina che mando a mio padre da Chicago: una foto un po’ storta, confusa, dei palloncini che si riversano dal soffitto e coprono la folla, bianchi rossi blu, finalmente. Sono davvero tanti, più palloncini di quanti ne abbia visti nella mia vita, non finiscono mai. L’abbondanza dell’America, per una notte.