il Giornale, 22 agosto 2024
Piero Chiara e la sua Luino: un rapporto difficile
Luino, una parte del lungolago è dedicata a Piero Chiara: è quella compresa fra il Caffè Clerici, dove lo scrittore oziava e giocava e respirava storie, e la sua casa natale, divenuta con gli anni un ristorante chiamato Due Scale. Proprio lì scende la via Felice Cavallotti, una salita stretta in cima alla quale c’è il locale più tipico, il Cantinone, dove andava a mangiare e bere Ugo Tognazzi quando era a Luino per girare Venga a prendere il caffè da noi, tratto dal romanzo La spartizione.
«E però tre quarti dei luinesi oggi non sanno neanche chi è, Piero Chiara», dice Francesca Boldrini, appassionata studiosa di vita e opere dell’illustre concittadino, o compaesano come Chiara avrebbe preferito sentir dire. Anche per lui valgono le parole di Gesù? Nemo propheta acceptus est in patria sua! In realtà, un’altra frase di un nostro illustre connazionale sarebbe forse più adatta: «Gli italiani perdonano tutto: ladri, delinquenti, assassini. L’unica cosa che non perdonano è il successo», diceva Enzo Ferrari.
I guai di Piero Chiara a Luino cominciarono infatti quando smise di essere un magnifico nullafacente e diventò uno scrittore di successo. Anche se i due ruoli si sovrappongono, anzi sono essenziali l’uno all’altro. Da cultore dell’ozio, Chiara amava raccontare agli amici le storie di paese. Una sera ad ascoltarlo c’era il suo compaesano Vittorio Sereni, grande poeta e allora direttore editoriale della Mondadori. «Perché queste storie non le metti per iscritto?», gli chiese. Nel settembre del 1958 sulla rivista Il Caffè diretta da Giambattista Vicari uscì il primo racconto, I giocatori. Un anno dopo il secondo, Storia di una tenutaria. Questi due articoli diventeranno i primi otto capitoli del primo romanzo di Chiara, Il piatto piange, uscito nel marzo 1962 da Mondadori nella collana Il Tornasole e subito ristampato.
E con il successo arrivarono appunto i guai. Perché Chiara inventava poco. Certo romanzava, certo aggiungeva particolari e fatti di fantasia per rendere i suoi racconti più gustosi. Ma si ispirava sempre a qualcosa di vero. A fatti veri, ma anche a persone vere. E quando scriveva la prima stesura, rigorosamente a mano, nel racconto citava i personaggi con i loro reali nomi e cognomi. Poi passava i fogli alla Gigliola Spozio, la sua segretaria, che li batteva a macchina. Quindi Chiara prendeva il dattiloscritto, cancellava i nomi veri e li sostituiva con quelli di fantasia. Il Guerlasca de Il piatto piange, ad esempio, era in realtà il dottor Ottavio Pagani,ufficiale sanitario e ostetrico. Per trovare i cognomi, Chiara girava con un taccuino per cimiteri e frequentava le pagine dei necrologi dei giornali locali: nacquero così l’albergatore Sberzi e il giocatore Coduri, il baro Rimediotti, il ragionier Queroni la cui moglie era l’amante del notaio Brudaglia, e così via. Spesso inventava nomi che gli parevano pertinenti a una qualche caratteristica fisica dei personaggi. In Vedrò Singapore? il pretore di Cividale del Friuli Muscarello nel libro diventa Anatriello, perché camminava come un’anatra; mentre l’acre e tagliente alto commissario di Trieste è chiamato Mordace.
Spesso i nomi di fantasia ricalcavano quelli veri. Il Temistocle Mario Orimbelli de La stanza del vescovo è ispirato a tale Giuseppe Attilio Ortelli, che davvero aveva una bella villa sul lago a Maccagno (nel libro a Oggebbio, sulla sponda piemontese; e nel film a Stresa). E davvero in quella villa c’era una stanza degli ospiti in cui veniva a stare un parente vescovo. E davvero Ortelli era un gran donnaiolo. E davvero aveva combattuto la guerra d’Africa agli ordini del colonnello Antonio Ajmone Cat, che al personaggio reale, l’Ortelli, inviò una foto con dedica: «Al dottor Giuseppe Attilio Ortelli, valoroso medico degli Spahys in Etiopia che rinnovella oggi ai suoi pazienti il mito di Faust con sincera amicizia». E davvero Piero Chiara aveva passato con l’Ortelli un’estate sul lago in barca a vela. Non vero, invece, il delitto della moglie dell’Ortelli: solo l’Orimbelli della fantasia uccide, perché un romanzo a volte ha esigenza di un giallo.
E gli amori. «La Rina de Il piatto piange è la Giovannina Magada, il grande amore della sua vita», racconta Francesca Boldrini. «Chiara la conobbe nel giugno del 1929, quando si trovò nel banco dietro a lei alla Scuola Bernardino Luini per la licenza complementare da privatisti. Lei aveva una lunga treccia nera che Chiara, per attirare la sua attenzione, infilò nel suo calamaio. Lei si infuriò, poi scoppiò l’amore». Giovannina Magada abitava a Duno e la famiglia di lei chiese informazioni su Piero Chiara al parroco, don Carlo Cambiano, che diventerà il don Biancamano del racconto La forza del destino. Giovannina morì giovanissima, il 5 febbraio del 1934, malata ai polmoni come la Caterina di Una spina nel cuore. Giovannina, Rina, Caterina...
E però non tutti avevano piacere di ritrovarsi, con nomi di poco storpiati, sulle pagine dei romanzi di Chiara. Il putiferio scoppiò subito, appena uscito il primo libro, Il piatto piange. L’8 giugno 1962 sul giornale cattolico Luce del Verbano don Antonio Girola, coadiutore a Luino dalla fine degli anni Venti, scrisse una Lettera aperta a Piero Chiara: «Carissimo Chiara...
scusami sai, ma voglio essere sincero: ho dato ragione anch’io a coloro che non l’hanno giudicato bene (Il piatto piange appunto, ndr), né per il contenuto, né per l’onore della località dove si svolgono gli episodi (...) E mi spiace molto che questa località si chiami Luino. Cosa t’è venuto in mente di cucire insieme gli episodi del pettegolezzo! Non hai saputo trovare episodi più degni per celebrare il passato della tua città natale? (...) Anche la morale, se si crede ancora alla regola del costume, zero meno; io non mi sentirei di suggerirne la lettura a chicchessia».
Per non parlare poi dello scandalo che destò in Luino la pubblicazione de La spartizione, ove si narravano le gesta delle tre sorelle Tettamanzi, le quali parevano destinate a morir zitelle prima d’incontrare un impiegato del Catasto che ne sposò una. Tutti le identificarono nelle tre sorelle Primi, che abitavano in via Cavallotti poco dopo il Cantinone, in una bella casa rosa con giardino che si può vedere anche oggi sbirciando al di là di un cancello. Una delle tre aveva davvero sposato un funzionario dello Stato e in paese si mormorava che «si facevano compagnia tutti e quattro». Quando poi nel 1970 uscì il film tratto dal romanzo, Venga a prendere il caffè da noi, una delle sorelle, Irene, era ancora viva e voleva fare causa. Il 15 gennaio 1970 Novella 2000 scriveva: «A Luino, però, la gente chiacchiera impietosamente e Irene Primi si è barricata dietro le mura della sua villa (...) Irene soffre molto. Questa storia, è inutile negarlo, l’ha colpita a fondo (...) Quello che l’ha sconvolta di più è stato il ricordo delle due sorelle scomparse, una professoressa, l’altra maestra». Il settimanale chiese un parere ad Alberto Lattuada, il regista del film, che rispose: «Questa persona dovrebbe divertirsi e assistere al film (...) Una persona civile dovrebbe liberarsi delle sue paure e ridere di sé stessa». «Ma a settantatré anni, commentò Novella 2000, Irene Primi ha timore che siano gli altri a ridere di lei».
Ma davvero Piero Chiara diede una brutta immagine di Luino? Forse lo poterono pensare i compaesani suoi contemporanei: di certo nessuno dei suoi lettori, perché dalle pagine di quei racconti e di quei romanzi, come scrisse sul settimanale Tempo uno dei più noti critici letterari italiani, Giancarlo Vigorelli, «Luino esce tutta vetrioleggiata per amore».