23 agosto 2024
La convention dem incorona Kamala Harris
Viviana Mazza, Cds: Chicago - Kamala Harris ha articolato il suo discorso alla convention democratica in tre punti. È partita dalla storia della sua vita, poi ha definito la differenza tra Donald Trump e se stessa come «il passato contro il futuro», infine ha rivendicato che il patriottismo non è una prerogativa dei repubblicani ma appartiene al partito democratico. Lo aveva detto meglio di chiunque altro proprio un repubblicano il giorno prima: «Se votate per Kamala Harris non siete elettori democratici, siete patriottici». Era l’ex vicegovernatore della Georgia Geoff Duncan che, insieme ad altri repubblicani, si oppose nel 2020 al tentativo di Trump di rovesciare l’esito delle elezioni vinte da Joe Biden.Per Harris era il discorso della vita. Aveva fatto prove generali per giorni. Sin da quando è diventata la candidata del partito democratico alla Casa Bianca (appena un mese fa) ha detto alla sua squadra che i momenti decisivi di questa campagna elettorale brevissima per gli standard americani sarebbero stati: il discorso alla convention e i dibattiti televisivi contro Trump. Ad assisterla a scriverlo è stato Adam Frankel, ex speechwriter di Barack Obama. Harris era consapevole che sarebbe stato fatto un paragone tra le sue abilità oratorie e quelle degli Obama e soprattutto con il discorso di Michelle.
Questa donna 59enne candidata alla poltrona più importante della nazione ha raccontato come la mamma divorziata, Shyamala Gopalan, immigrata dall’India, l’ha cresciuta in California: un modo per mostrare di capire molto bene le difficoltà della classe media nell’America di oggi. Diversi speaker nei giorni scorsi hanno rievocato come Harris abbia lavorato per McDonald’s da giovane, per contrapporla alla ricchezza ereditata da Trump. Si è ritratta come una procuratrice della California che ha fatto giustizia contro truffatori e predatori sessuali e non poteva mancare la frase dei suoi comizi: «Per questo so bene che tipo è Donald Trump».
Il secondo punto del discorso: contrapporre a quella che Pete Buttigieg, rivale di Harris nelle primarie 2020 e ora importante alleato, ha descritto «l’oscurità» di cui si alimenta la campagna di Trump con un capitolo più luminoso. «Freedom» (Libertà) è lo slogan di Harris. È un concetto usato e abusato nella politica americana, ma come spiega in un saggio di prossima uscita, «On Freedom», lo storico Timothy Snyder, l’America e la destra si sono allontanate «pericolosamente» dall’idea di libertà come «possibilità» per vederla sempre più come «assenza di limiti»: libertà da qualcosa, quindi anche dalle nostre responsabilità nei confronti del pianeta e degli altri, alle quali Harris (e il suo vice Tim Walz) richiamano gli elettori. Ma la chiave è «l’accessibilità». Il senatore afroamericano della South Carolina Jim Clyburn le ha spiegato che per rendere l’America grande bisogna che tutti possano permettersi una casa, l’assistenza sanitaria, le cose belle e necessarie della vita. Ed è significativo che le promesse politiche più dettagliate di Harris riguardino proprio questi temi, incluso il costo degli alimenti. Non è semplice proporre una nuova strada mentre è ancora la vicepresidente di Biden, ma mentre lui spesso spiegava che l’economia va bene benché la gente «non ne senta ancora» gli effetti, lei vuole mostrare che «sente» le difficoltà concrete della gente.
Il terzo punto è il patriottismo. Sullo sfondo dei cartelli con la scritta «U.S.A.», Harris si è presentata come la presidente di tutti gli americani. A differenza dei comizi popolati da chi è già un fan, una convention viene trasmessa in tv e condivisa con piccoli video sui social: l’obiettivo di Harris era rivolgersi agli indipendenti e ai repubblicani delusi da Trump. «Scegliete il senso comune anziché l’insensatezza», ha detto il giorno prima Oprah, una delle persone più influenti d’America, proprio agli indecisi e agli indipendenti. E Trump, che aspetta con ansia il ritiro e l’endorsement di Robert Kennedy jr (venerdì dovrebbero apparire insieme in Arizona) ha commentato il discorso della rivale «in diretta» sui social.
*
Guia Soncini, Linkiesta (22/8):
Che cos’hanno in comune il marito di Michelle Obama e l’ex marito della Ferragni, e Bruno Vespa e Maurizio Gasparri, e molti altri ogni giorno alle cui parole reagiamo non a seconda delle parole ma a seconda di chi le dica? Questo, appunto: che reagiamo alle parole come ai gol allo stadio. Non per l’azione sportiva, ma per l’appartenenza alla tifoseria.
È andata così, sperare di cambiare uno stato di cose ormai irreversibile sarebbe folle, prendiamone atto e facciamo pace col mondo in cui viviamo. Un mondo fatto a forma di curva di stadio, in cui esultiamo o ci dispiacciamo a seconda del settore in cui siamo seduti. Un mondo in cui non contano niente le parole, e nientissimo i fatti: conta solo l’emittente.
L’ultimo è stato Barack Obama, primo presidente degli Stati Uniti nell’epoca di Instagram, fotogenico-in-chief il cui ritardo nell’appoggiare Kamala Harris (dopo Biden, ma anche molto dopo i Clinton) mi piace pensare sia dovuto al timore ch’ella possa risultare fotogenica quanto lui e inficiarne il primato.
Quindi Barack Obama martedì sera appare al congresso del partito democratico, congresso il cui scopo è deliberare che Kamala Harris sarà la candidata alla presidenza, e a un certo punto fa riferimento a Donald Trump. Il quale aveva fatto ciò che si fa nelle campagne elettorali, raccontare delle cazzate, dicendo che la folla al comizio della Harris era inferiore alla folla ai comizi suoi.
Poi, siccome nessuno lo batte in mitomania (nessuno in America: in Italia siamo in un campionato di mitomania che gli americani se lo sognano), aveva anche detto che la folla al più famoso comizio di Martin Luther King era minore della sua. Poiché quelli che fanno i meme non hanno memoria storica, non ho visto apparire il meme che sarebbe stato più logico a quel punto, cioè il Donald che dice «I’ve been to the mountaintop».
In compenso qualche giorno dopo è apparso Barry che, alla folla di Chicago, ha detto che Trump è infantile, nel suo storpiare i nomi (non è gentile che Obama dia dell’infantile a Marco Travaglio, io ve lo dico), nei suoi folli complottismi, e in questa bislacca ossessione per le misure della folla. «Bislacca» è il modo in cui per oggi ho deciso di rendere «weird», parola fondamentale di questa campagna elettorale americana per cui non ho ancora trovato una traduzione che mi convinca, che esemplifichi la sfumatura per cui i repubblicani si offendono ogni volta che i democratici li definiscono «weird», la zia matta che dice che è tutto un complotto e che quando parla alla cena di Natale tutti s’imbarazzano.
Ma non è «weird» il punto, per una volta. Il punto è il gesto che fa Obama. Che fa dopo averlo pianificato, ovviamente, perché non ti fai due mandati di presidenza instagrammabile senza sapere perfettamente che quel gesto lì diventerà il video più condiviso della serata e oscurerà qualunque istanza politica (parlando della politica da viva). Sei Barack Obama: lo sai, che quel momento diventerà quel che gli analfabeti contemporanei chiamano «virale».
Obama dice «ossessione per le misure» e fa quel gesto con le mani, quel gesto che potrebbe fare un Angelo Duro qui o un Sebastian Maniscalco lì, un comico di quelli che non piacciono alla gente che piace, un comico di quelli che hanno un ampio pubblico, ma un pubblico colpevole del ridere di battute di grana grossa e allusioni per niente sofisticate. Insomma: Barack Obama dice senza dirlo, ma incontrovertibilmente, che il problema di Trump è avercelo piccolo.
E lo fa un secondo dopo aver detto che è infantile storpiare i nomi, chiamare Kamala «Kambala». Lo fa alzandoci la palla, rendendoci facilissimo schiacciare l’obiezione: who’s childish, now? Se era infantile storpiare i nomi, alludere a misure di cazzi cos’è? Ma noi non lo diremo, e lui lo sa. Perché non capirà niente di politica, ma capisce tutto di come funziona la comunicazione in questo secolo.
Sa che, se l’ex marito della Ferragni dice «stanotte abbiamo fatto la storia della Costa Smeralda» dopo aver organizzato una qualunque dei milioni di feste che si organizzano in Sardegna, la gente che piace si indignerà non perché gliene freghi qualcosa della storia, dell’Aga Khan, del primato di cazzoneria della bandana di Berlusconi, del lascito di Marta Marzotto.
La gente che piace s’indignerà perché l’ex marito della Ferragni è culturalmente impresentabile, e quindi non ha diritto d’iperbole. Quel diritto d’iperbole che esercitiamo ogni giorno. L’articolo o il libro scritti dall’amico nostro sono «capolavoro», «imperdibile», «definitivo», gli amici nostri sono «genio», ma guai a quell’orrido arricchito se dice che ha fatto la storia, in questi giorni impazziti (cit.).
E, quando Bruno Vespa dice che Paola Egonu rappresenta un esempio di integrazione riuscita, eccoci pronti a strillare che la Egonu è nata in Italia: ignorante, fascista, utilizzatore di parole sbagliate che non sei altro.
Come se la Egonu non fosse nera in un paese in cui la borghesia nera è pressoché inesistente, in un paese in cui i neri sono o campioni sportivi o fattorini di Glovo, in cui la classe media è compattamente bianca e con quali diavolo di parole devi dirlo che è stata una bambina nera in una classe di bianchi, di grazia? Lo dici con «integrazione»; se l’avesse usata Massimo Giannini, ci sarebbe stato chiaro che era la parola giusta, ma è andata così: che l’emittente conta più del messaggio.
Il che fa esplodere cervelli quando l’emittente sbagliato se la prende con un altro emittente sbagliato: come ci posizioniamo, per far capire subito che siamo dei buoni, quando Maurizio Gasparri, che alcuni giri di posizionamento addietro era il Male Assoluto, non solo dice tutte le cose giuste ma le dice per obiettare a quel che ha detto Roberto Vannacci, ovvero un’incarnazione più recente di Male Assoluto?
Ma, soprattutto, come avremmo reagito se il comizio irridendo l’avversario a colpi di gesti sulle misure vitali l’avesse fatto Trump, l’avesse fatto Berlusconi, l’avesse fatto Vannacci, l’avesse fatto Bannon, l’avesse fatto Lollobrigida, l’avesse fatto uno qualunque degli emittenti sbagliati con, oltretutto, l’aggravante di non essere fotogenici?
*
Massimo Gaggi, Cds:
Chicago - Non solo il canto del cigno di Joe Biden col passaggio del testimone a Kamala Harris. I quattro magmatici, eccitatissimi giorni della United arena hanno disegnato un cambiamento più profondo del semplice commiato del leader troppo vecchio per affrontare un nuovo mandato. È tutta la gerontocrazia di un partito da sempre più complesso di quello repubblicano ad arrivare al crepuscolo. E con essa tramonta anche il partito dei clan e delle dinastie.
Avrebbe potuto provare a crearne un’altra – dopo quella dei Kennedy e dei Clinton – Michelle Obama. E molti, affascinati dal suo intervento – il più lucido, appassionato, trascinante di tutta la convention, intriso di umanità, orgoglio e passione civile – sono rammaricati dalla rinuncia della ex first lady. Ma Michelle ha sempre respinto l’idea di un ritorno alla Casa Bianca e l’altra sera, con l’energia che ha diffuso nell’arena di Chicago, ha fatto apparire Barack Obama, che ha parlato dopo di lei, un politico che non riesce più a scaldare i cuori: un leader consapevole dei mutamenti in atto che, dopo aver ironizzato sul suo rapido invecchiamento, ha pronunciato un discorso politicamente acuto ma non trascinante, sigillato dal tentativo un po’ patetico di riesumare gli slogan del 2008, declinati al femminile: «Yes she can».
Poi Bill Clinton che prova ancora una volta a essere mattatore: ignora in gran parte il testo del discorso scritto, parla per quasi mezz’ora invece dei 12 minuti previsti, ma ha un volto tirato, quasi irriconoscibile, e le battute più efficaci le pronuncia con un filo di voce. Nancy Pelosi sale sul palco poco dopo: è più vivace e dinamica di Clinton nonostante i suoi 84 anni. È stata la regista delle pressioni concentriche su Biden, rimane una ex speaker dal grande intuito politico, ma non riesce a regalare al popolo della convention molto più di un enfatico tentativo di ricucire col presidente, accompagnato dagli ampi gesti delle sue mani ossute.
Gerontocrazia
Non è stato solo il canto del cigno di Joe Biden ma di tutta la gerontocrazia
E poi Hillary Clinton sorprendentemente calda, empatica, limpida, finalmente in pace con se stessa avendo accettato di essere arrivata al suo capolinea politico. E Bernie Sanders, lucidissimo a dispetto degli 82 anni: consapevole della sua trasformazione in icona di una sinistra radicale ormai guidata dalla generazione di Ocasio Cortez, sempre più adulta, avveduta, pragmatica.
È un cambiamento epocale: clan e dinastie hanno prodotto clientele, ma sono stati anche un collante prezioso per un partito da sempre obbligato a tenere insieme anime molto diverse. Quale sarà la struttura del nuovo fonte democratico? I leoni del «partito dei governatori» – il nero del Maryland Wes Moore, il bianco del Kentucky Andy Beshear che piace ai moderati dell’«America profonda», l’ebreo della Pennsylvania Josh Shapiro, la progressista del Michigan Gretchen Whitmer – riusciranno a fare squadra? E Kamala Harris, che ora vola sulle ali dell’entusiasmo, ma solo di recente ha cominciato a costruire una rete di alleanze nel partito soprattutto intorno alla libertà di procreazione, avrà la forza di tenere insieme una coalizione sempre più sfaccettata nel grande mix di etnie, culture, fedi religiose, identità di genere?
Karl Rove, stratega repubblicano delle vittorie di George Bush, avverte Trump: «Normalmente i democratici sono entusiasti, si innamorano, mentre i repubblicani sono disciplinati, si allineano. Stavolta la sinistra sembra tanto entusiasta quando disciplinata: se resta allineata dietro Kamala per la destra saranno guai». Quello della gioia, della speranza e della tolleranza potrebbe diventare il nuovo collante del partito di Kamala. Ma per ora a garantire l’unità c’è soprattutto lo spettro di Trump 2. E il sequel, come ha detto l’altra sera Barack Obama, è solitamente peggiore dell’originale.
*
Anna Lombardi, Rep:
«Chi dice che non si può tornare a casa?». La regina dei salotti tv Oprah Winfrey ha esordito così, apparendo mercoledì sera a sorpresa, sul palco della Convention Democratica: con una citazione del romanziere Thomas Wolfe usata solitamente per dire che quando si torna a qualcosa, la si trova diversa. La donna più influente d’America in abito porpora, rimando a quel Il Colore Viola che negli anni ‘80 ne lanciò la carriera e di cui ha prodotto il remake l’hanno scorso – alludeva certo al fatto che da Chicago andava in onda lo show da lei condotto per un quarto di secolo.Ma pure all’unico altro discorso politico della sua lunga carriera di «orgogliosa elettrice indipendente»: l’endorsement dato alla convention dem del 2008, al primo afroamericano in corsa per la presidenza, Barack Obama (sostenne poi pure Hillary Clinton nel 2016 e Joe Biden nel 2020, ma senza spendersi in apparizioni). Winfrey, dunque, è tornata in casa dem: per riversare tutto il suo peso su Kamala Harris, prima donna nera ad affrontare la sfida della Casa Bianca.E infatti la sua è stata una vera chiamata all’azione: «Dipingono un paese diviso fra noi contro loro. Fanno credere che i libri sono pericolosi e i fucili d’assalto sicuri, dicono che c’è un modo giusto di pregare e uno sbagliato di amare. Vogliono dividere per conquistare: ma uniti siamo invincibili». La scelta, spiega «è fra buonsenso contro nonsenso: Harris e Tim Walz assicurano decoro e rispetto». Li dipinge come buoni vicini: «Se la vostra casa brucia, correranno a salvarvi, senza chiedervi razza, fede, genere o per chi avete votato. E se nella casa vive una gattara senza figli, salveranno pure il gatto» dice stuzzicando il repubblicano JD Vance. Poi, ricorda figure mitiche della lotte per i diritti civili degli afroamericani: John Lewis, che marciò a Selma con Martin Luther King. E Tessie Prevost Williams, prima bimba in una scuola desegregata, dove entrò scortata dagli agenti: «La libertà non è gratis. Scegliamola insieme a verità, onore, gioia».Sì, i dem si sono ripresi la parolafreedom, libertà: fin troppo abusata da Donald Trump per alludere a regole di governo a suo dire invasive. Non a caso è pure il titolo della canzone regalata da Beyoncé alla campagna di Harris, ieri colonna sonora della caduta dei palloncini, culmine della serata. E poi parlano dijoy,gioia in opposizione alla visione cupa dell’America trumpiana. Ecco le parole d’ordine per conquistare elettori a tutto campo. E con ogni mezzo, fino a trasformare il partito in movimento.Un lavoro da compiere in poco più di 70 giorni cui si sono già aggregati con entusiasmo musicisti, attori e pure sportivi come Steve Kerr, il campione di basket che ha allenato il team olimpico statunitense, oro alle Olimpiadi di Parigi. Tutti intenti a mobilitare la loro “fandom”, le comunità di fan: considerate potente forza politica delle presidenziali 2024 (anche grazie a meme e remix messi in circolazione da star come Charli XCX e Taylor Swift).Esserci è così importante, che qualcuno si è accontentato di starsene coi delegati dei diversi stati: come il regista Spike Lee (New York), il rapper Lil Jon (Georgia), l’attrice Eva Longoria (Texas). Dal palco della convention ce n’è invece per ogni gusto: ed età, con particolare attenzione ai più giovani. È a loro che si rivolge Kenan Thompson, l’esilarante comico afroamericano, star del programma satirico Saturday Night Show, spiegando – e allo stesso tempo distruggendo – il Project 2025: insieme di proposte politiche formulate dall’ultra conservatrice Heritage Foundation, così estremiste che ora Trump sta provando a prenderne le distanze, ma molti le ritengono la sua agenda. «Un librone così grande capace di uccidere contemporaneamentepiccoli animali e la democrazia», dice sarcastico Thompson, per poi annunciare a un’impiegata del Ministero dell’educazione che «a pagina 78 scrivono che l’ente sarà cancellato», a una malata di diabete «l’insulina aumenterà per fare un favore a Big Pharma» e a una coppia gay «il vostro matrimonio sarà annullato». A dare fiducia ci prova Amanda Gorman, la più giovane poetessa laureata d’America che già declamò i suoi versi all’insediamento di Biden nel 2020. Per Kamala ha scritto “This Sacred Scene”, un inno al futuro: «Il domani è scritto ma dall’audacia della speranza e dalla vitalità del voto. Non possiamo solo credere nel sogno americano, dobbiamo esserne degni» recitano le sue rime.È uno spettacolo imperdibile, quello messo in scena dai dem: “People who need people are the luckiest people in the world”, la gente che ha bisogno d’altra gente è la più fortunata al mondo, gorgheggia Steve Wonder facendo ballare tutto il pubblico dell’arena. Let’s go Crazy trascina John Legend duettando con Sheila E. Fino all’ultima notte, ricca di sorprese: dove a intonare l’inno sono state The Chicks, mitico trio country femminile la cui lunga storia di impegno dem ha procurato molti guai, minacciate e boicottate dagli amanti di un genere tradizionalmente conservatore. Mentre Pink con “Just Give Me a Reason”, dammi una ragione, ha anticipato l’ingresso di Harris sul palco per il discorso d’accettazione. Tutti insieme per Kamala superstar: oggi a Chicago, domani alla Casa Bianca.
*
Marco Valsania, Sole:
Kamala Harris procuratrice combattiva, preparata e pronta a battersi per i ceti medi e popolari e per tutti gli americani. Capace di fare appello ad un patriottismo “sano”. Di offrire il partito democratico e la propria candidatura alla Casa Bianca, storica quale prima donna e prima donna di colore, afroamericana e asiatica, come la più autentica rappresentazione oggi dell’intero Paese, dei suoi valori di libertà e democrazia, di una “freeedom agenda”. E nel farlo rifiutare l’etichetta di “liberal radicale” che le affibbiano i repubblicani Donald Trump e JD Vance. Anzi ritorcere l’accusa contro di loro, mettendoli all’angolo con imputazioni di estremismo che divide la nazione e foriero di un futuro cupo.
Harris ha messo a fuoco così il suo discorso conclusivo alla Convention democratica allo United Center, l’accettazione formale della nomination alla Casa Bianca attesa nella notte con tripudi di palloncini e bagno di folla tra i delegati. Un intervento che ha avuto per posta in gioco nientemeno che la sua reinvenzione davanti al grande elettorato. I suoi collaboratori hanno fatto sapere che nel delineare il contrasto con Trump è essenziale, adesso e nelle prossime settimane, ravvivare sia la speranza motore dell’elezione alla Casa Bianca di Barack Obama. Quanto la dottrina di competenza e normalità che è stata di Joe Biden.
Nel cercare l’equilibrio del messaggio, la 59enne Harris intende far leva anzitutto sul suo percorso personale e professionale. Donna e leader di successo nata e cresciuta in una famiglia californiana multiculturale di ceto medio, padre giamaicano, economista, e madre indiana, scienziata e oncologa. Più ancora che in qualunque agenda programmatica, sono queste radici a incarnare “l’evoluzione del partito”, nelle parole della senatrice progressista Elizabeth Warren. Una storia «unicamente americana», di possibilità da proteggere per tutti.
L’altra vena della sua candidatura la trova invece nella carriera da magistrato, prima procuratore distrettuale a San Francisco e poi procuratore generale della California, dove ha esibito un credo che può attirare consensi al di là della base del partito. Tanto determinato quanto pragmatico, ispirato a logiche di cambiamenti graduali e meno incline a voli retorici. Qui sottolinea i casi difficili con i quali ha saputo fare i conti: contro organizzazioni criminali transnazionali, traffico di essere umani, abusi sessuali come truffe immobiliari ai danni dei consumatori.
La vena pratica l’ha distinta anche dopo che è stata eletta al Senato: ha fatto scuola con la precisione ed efficacia delle domande durante audizioni trattate alla stregua di udienze in tribunale. Quattro anni da vicepresidente di Biden, se l’hanno lasciata in ombra, le hanno inoltre consentito di accumulare dietro le quinte concreta esperienza sul palcoscenico nazionale e internazionale, rispetto alla sua fallita campagna per le primarie democratiche nel 2020.
La partita elettorale resta aperta a poco più di 70 giorni dal voto e Harris, che ha fatto della “gioia” della sua campagna uno slogan, tempera l’ottimismo, che vede già iniziato il toto-ministri: da William Burns della Cia agli Esteri a Gina Raimondo al Tesoro e Rahm Emanuel al Commercio. Lo sforzo è al momento concentrato nell’allargare la presa ed è entrato nel vivo allo United Center: il discorso della candidata è stato preceduto da giornate che, accanto a leader democratici, hanno visto susseguirsi “profughi” del partito di Trump. Da ex esponenti della sua amministrazione, turbati dal suo supporto all’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, fino all’ex vice-governatore della Georgia Geoff Duncan, tuttora repubblicano e che oggi, facendo eco a Harris, considera votare per lei un gesto patriottico.
Harris spera in sondaggi che la vedono continuare a scuotere la dinamica dello scontro per la Casa Bianca. Stacca in media di due punti Trump nei sette stati più incerti e decisivi a novembre, un ribaltamento rispetto ai cinque punti di ritardo che aveva Biden. Harris fa meglio anzitutto tra le donne di ogni estrazione, con un guadagno di undici punti rispetto a Biden e di 16 punti tra le under 45. Significativi progressi li mette a segno tra giovani e elettorato di colore. Più specificamente, stando al New York Times-Siena College, ha preso 15 punti tra chi usa TikTok, 17 punti tra i non bianchi under 45 anni, 13 tra chi si definisce moderato. Arranca però tra gli anziani e nell’elettorato maschile bianco, roccaforte di Trump. Un’incognita ulteriore può diventare il ritiro di Robert F Kennedy Jr, candidato indipendente antivax, che intende appoggiare Trump.
*
Sole:
«Quello è il mio papà». Non ce l’ha fatta a trattenersi Gus Walz, in platea con tutta la famiglia – alla Convention democratica a Chicago – per accompagnare e sostenere il padre Tim Walz, candidato alla vicepresidenza al fianco di Kamala Harris.
Gus, 17 anni, è balzato in piedi e tra le lacrime, singhiozzando, ha indicato il genitore che dal palco stava parlando della famiglia, dei figli, del suo impegno nella scuola e nella politica.
Il video di Gus – affetto da sindrome da deficit di attenzione, disturbi d’ansia e dell’apprendimento non verbale – è diventato subito virale sui social e l’hashtag #thatsmydad è entrato nella campagna elettorale: «Gus Walz è tutti noi», hanno postato i democratici del Michigan.
«Hope, Gus e Gwen siete il mio mondo intero e io vi amo», ha detto Tim Walz rivolgendosi alla famiglia, e spiegando, che lui e la moglie Gwen, dopo anni di difficoltà, hanno fatto ricorso a trattamenti di fertilità per avere i due figli Hope, 23 anni, e Gus.
*
Valeria Robecco, Giornale:
Il partito democratico incorona Kamala Harris e lancia la cavalcata finale verso il 5 novembre, quando la vice presidente Usa spera di rompere il soffitto di cristallo diventando la prima donna a vincere la corsa alla Casa Bianca. Nel suo discorso più importante, quello per accettare solennemente la nomination, Harris racconta della sua vita, presenta la corsa contro Donald Trump come il futuro contro il passato, e sottolinea la necessità di reclamare il patriottismo come cardine dei dem, e non ad esclusivo appannaggio dei repubblicani.
Un discorso che ha elaborato personalmente riga per riga insieme ad Adam Frankel, l’ex speechwriter di Barack Obama e ora suo consigliere. La candidata dell’Asinello, nata da padre giamaicano e madre indiana, vuole inquadrare la sua educazione borghese come un modo per comprendere meglio le esigenze e le difficoltà della classe media, per poi passare in rassegna la sua carriera, dal primo lavoro sino a ruolo di procuratrice generale della California, a quando
è diventata la numero due di Joe Biden. «Abbiamo la possibilità di eleggere un presidente che è per la classe media perché è della classe media», ha ricordato nei giorni scorsi la deputata liberal Alexandria Ocasio-Cortez. Mentre Brian Nelson, consulente politico di Harris, che ha lavorato con lei da quando era procuratrice generale, ha spiegato che l’intervento di ieri è stato «un’opportunità per spiegare al popolo americano chi è».
Nelle poche settimane dalla sua discesa in campo, infatti, Harris ha tenuto molti comizi, ma parlando sempre a un pubblico essenzialmente favorevole, mentre la performance di ieri andata in onda in prima serata le ha permesso di fare appello ad un elettorato più ampio, inclusi indipendenti e repubblicani «pentiti». Centrale è la volontà di contrapporre la sua promessa di proteggere le libertà e di offrire un nuovo capitolo più luminoso all’America, ai cupi avvertimenti su Trump e il famigerato «Project 2025», l’agenda ultra conservatrice pubblicata da Heritage Foundation che ambisce a servire come piattaforma per una seconda presidenza del tycoon. Da cui lui in realtà ha sempre preso le distanze, definendo «vergognoso che si parli del Project 2025 che non ha nulla a che fare con
me». Il compito non semplice di Harris è quello di riuscire a presentarsi come una nuova leader per il Paese, anche se fa parte dell’attuale amministrazione.
Oltre a dover contrastare la rappresentazione che la campagna di Trump fa di lei come di una «pericolosa liberal», visto che vuole proporsi come presidente di tutti gli americani. E infatti si è allontanata da una serie di posizioni più progressiste che aveva portato avanti durante la breve corsa alle primarie del 2020. Ora, però, è tutto da dimostrare per lei dopo la sbornia di Chicago, da dove è uscita da regina del partito, ma con una corona ancora imperfetta in testa. Quella del suo programma elettorale. Poiché come avverte il politologo Larry Sabato, «non c’è una seconda possibilità per fare una buona prima impressione. Gli elettori hanno visto lo stile Kamala. Ora hanno bisogno del programma di Kamala».
*
Giornale:
Sebbene i dem Usa abbiano fatto una scelta di campo in tema umanitario e politico, il partito ha negato spazio al portavoce del movimento pro-Gaza a Chicago.
*
Anna Guaita, Mess:
L’America dei piccoli paesi, delle comunità coese, dove la solidarietà e il rispetto reciproco rimangono valori fondamentali. Tim Walz, il 60enne governatore del Minnesota, ma nato nel confinante Nebraska, ha portato le sue origini del Midwest sul palco della Convention Democratica, assicurando un posto di leadership al cuore pulsante dell’America rurale e provinciale, spesso dimenticata dalla politica nazionale.Viene infatti da una famiglia modesta, e si è mantenuto agli studi arruolandosi nella Guardia Nazionale a 17 anni. Ha tirato su una famiglia lavorando come insegnante in una scuola pubblica, da dove ha poi fatto il balzo alla politica, vincendo in un distretto molto conservatore e riuscendo a farsi rieleggere per 12 anni, grazie alla sua politica pragmatica.
Il suo ruolo nella campagna di Kamala Harris è quello di rassicurare gli elettori che si sentono alienati dalle élite delle due coste. Non a caso ha ironizzato sulle grandi università della East Coast, quei templi del sapere che spesso vengono visti come distanti dalla realtà della provincia: «Ho fatto un liceo dove nessuno è andato a Yale» ha scherzato, facendo l’occhiolino ai milioni di americani che a mala pena possono permettersi un college statale. Sul palco lo hanno raggiunto i suoi ex allievi della squadra di football degli Scarlets, della Mankato High School, oggi adulti, alcuni con tanto di pancetta e molto lontani dalla forma giovanile di quando Walz li ha portati a vincere il campionato statale del Minnesota. E a completare questa L’immagine di un uomo come gli altri, bonario e ironico, buon vicino e papà di tutti i suoi allievi, ci ha pensato la famiglia, che lo seguiva dai palchi a destra del podio. I figli Hope e Gus erano visibilmente commossi, con le lacrime che gli segnavano la faccia. Una reazione che ha mostrato quanto quest’uomo sia amato dai suoi cari. Gus, un ragazzo di 19 anni, è balzato in piedi e ha gridato: «Quello è mio padre!» mentre la madre Gwen tentava di farlo star seduto, commossa però anche lei. Gus soffre di Adhd (Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività) e suo padre ne ha parlato pubblicamente, in relazione a politiche educative e sanitarie. Così come ha parlato delle difficoltà di concepire che lui e la moglie hanno incontrato per anni, obbligandoli a ricorrere alla fecondazione assistita, per l’appunto una pratica che alcune frange estremiste del partito di Donald Trump vorrebbero rendere impossibile.
*
Roberto Festa, Fatto:
Chicago (Illinois). “That’s my dad!”. È l’urlo con cui Gus Walz si è rivolto al padre Tim, mentre questi in diretta televisiva accettava la candidatura democratica a vicepresidente degli Stati Uniti. Il ragazzo, in lacrime, reagiva al racconto del padre sulle difficoltà incontrate nella procreazione e sui vantaggi della fertilizzazione in vitro. Molti americani conoscevano già quella storia. Il governatore Walz l’ha ripetuta molte volte in queste settimane di campagna elettorale. La famiglia è del resto uno degli attributi necessari di ogni politico americano che voglia fare davvero carriera. Mostra solidità. Mostra fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” dell’esperimento americano. Chi non ce l’ha, soprattutto se donna, viene spregiativamente definito “gattara”, come ha fatto l’altro candidato vice, il repubblicano Jd Vance.In certi casi, la famiglia diventa una “ditta”. In altri, più rari, si trasforma in dinastia. Con risultati che talvolta fanno rimpiangere i gatti. Ancora una volta alla Convention democratica di Chicago madri, padri, figli – in tutte le versioni, in fasce, in lacrime, adottati – sono stati al centro dei riflettori. Doug Emhoff, marito di Kamala Harris, ha raccontato gli attimi strazianti quando, alle 8:30 del mattino, lasciò un messaggio sulla segreteria telefonica della futura moglie, per combinare il primo appuntamento. Joe Biden è salito sul palco dello United Center introdotto dalla figlia Ashley, che ha ricordato la tragedia più grande della vita dell’anziano presidente, la morte a 46 anni del figlio Joe. Poco prima, dallo stesso palco, aveva parlato Jill, onnipresente moglie di Joe, colei che prima l’ha spronato a restare in corsa – “sei stato così bravo, hai risposto a tutte le domande”, gli ha detto dopo la disastrosa apparizione nello scontro tv con Donald Trump – e che poi l’avrebbe consigliato di mollare il colpo. Non si è visto in giro, a Chicago, l’altro figlio, Hunter. Comprensibile. Tra qualche giorno, in California, deve affrontare un processo per evasione fiscale. E, causa sua, il padre Joe ha dovuto subire l’accusa più infamante. Familismo. Nel caso di Biden, Walz, Harris, la famiglia è ancora solo esibizione di fede negli eterni ideali americani di moralità e decenza (almeno apparente).La famiglia diventa “politica” quando si trasforma in “ditta”. Anche da questo punto, Chicago 2024 è stata generosa. Nella windy city sono arrivati Hillary e Bill Clinton. Lei raggiante, in eterno tailleur pantalone, a parlare del “soffitto di cristallo” che le donne in politica devono frantumare. Lui ormai un po’ emaciato e fané, col solito sorriso guascone. Insieme a quella di Eleanor e Franklyn Delano Roosevelt, la loro è stata la ditta politica per eccellenza del firmamento democratico, tenuta insieme dalla fede in certi valori, dall’ambizione, dalla passione per il potere.Altra ditta politica presente a Chicago è stata quella degli Obama. Nel loro caso l’aspetto sentimentale è, almeno in apparenza, ancora presente. “L’amore della mia vita”, ha detto Michelle, introducendo sul palco Barack. Ciò non toglie che i due funzionino con implacabile e rodata professionalità. Se lui alla Convention ha fatto un discorso misurato, invitando l’America a deporre la “mentalità del nemico”, a lei è bastato poco per fare a pezzi il nemico. Sua la battuta che resterà nella storia di questa Convention: “Qualcuno dica a Trump che il lavoro che vuole, fare il presidente, è uno dei black jobs”.Quando passa di generazione, la ditta si trasforma in dinastia. Non è cosa facile, in un Paese che ama le monarchie solo quando ne legge sulle cronache mondane. Tra Settecento e Ottocento, gli Adams del Massachusetts ebbero due presidenti, un segretario alla marina e un ambasciatore a Londra. Due presidenti e un padre fondatore per gli Harrison della Virginia, e una lista infinita di cariche pubbliche per i Taft dell’Ohio. Più di recente, ci sono da citare i Bush, con due presidenti, un governatore e un senatore, Prescott Sheldon Bush. Dinastia sono ormai anche i Trump. Qui non c’è ancora il passaggio generazionale, ma c’è il clan – Donald Jr, Eric, Ivanka, Barron – e c’è soprattutto un sovrano che a 78 anni pensa a chi lasciare in eredità il suo Maga. Potrebbe essere un “figlio acquisito”, Jd Vance, il suo vice, che un tempo raccontava della passione per far sesso tra i cuscini dei divani e che alla Convention repubblicana di Milwaukee si è regolarmente presentato con la moglie e i tre figli.La dinastia americana per eccellenza è però, ovviamente, quella dei Kennedy. Un presidente, un attorney general, un senatore del Massachusetts nel giro di una generazione. In questo caso, il passaggio generazionale non è stato esattamente un successo. Jack, nipote di Jfk, raccoglie like entusiastici con i suoi balletti su Instagram. La vera pecora nera è però Robert Jr., attivista anti-vaccini e complottista, che ha fatto quello che una famiglia democratica non potrà mai e poi mai accettare. Finire tra le braccia di Donald Trump.
*
Michele Masneri, Foglio:
Chicago, dal nostro inviato. Sono duecento, sono giovani e forti, e postano contenuti sui cani. Alla fine questa sarà ricordata anche come la convention degli influencer, pardon, dei creator. Per la prima volta infatti la convenzione che lancia il candidato democratico alla Casa Bianca ha fatto ricorso a un manipolo di operatori digitali riconosciuti e con patentino. Duecento, appunto, a cui sono stati rilasciati accrediti ufficiali per accedere allo United Center, lo stadio dove fino a ieri si è tenuta la kermesse. Che l’importanza di questo drappello di influencer sia alta lo si capiva salendo al terzo piano dello stadio, quello coi posti riservati alla vecchia stampa scritta. Ottenere gli accrediti per avere questi posti è stato molto difficile, e dopo vari diaboliche email e presentazione di documenti e protocolli micidiali, i vecchi giornalisti scritti venivano fatti accomodare su “posti non assegnati” su gradinate ripidissime, col rischio di piombare di sotto magari in braccio a Nancy Pelosi, e “potreste non avere accesso alla corrente”, ci avevano messo in guardia, cosa che diventava presto il vero incubo, perché tutti stavamo lì a cercare di infilare i nostri pc e telefoni con le varie prolunghe e accrocchi in ciabatte sparse con entusiasmo dai volontari e legate con lo scotch, mentre il wi-fi andava e veniva. Per arrivare al terzo anello, però, a parte i numerosi stand di hot dog e pop corn sovrapprezzati e indigeribili con cui ci siamo nutriti in questi giorni c’era, molto visibile, una “creator room”, tutta bella colorata, con buffet all you can eat: per loro, i creator. Cibo gratis, musica, bibite, un buttafuori all’entrata, e dentro tanti ragazzotti e ragazzotte dall’aria simpatica che si fotografavano davanti a una parete attrezzata coi loghi “Creators For Kamala”. E non che fosse l’unico dei “club” privati della convention, figuriamoci, banche e tv e altri poteri forti e meno forti ospitavano vip e semivip, ma la tribunetta di giovani sbafatori instagrammatici davanti alla caienna dei giornalisti scritti era un messaggio abbastanza chiaro. Se ci mettiamo il fatto che Kamala, come una Giorgia Meloni qualsiasi, non ha ancora concesso un’intervista da quando si è candidata, come dire, abbiamo capito il messaggio. Ma qui non si vuol fare, pur magari essendolo, i vecchi boomer o tromboni che “signora mia, ai miei tempi”, e sicuramente i giornalisti dell’oscuro giornale europeo avranno meno “ac cesso” di pregiate testate americane, è solo curiosità. Provo a scrivere a Cayana Mackey Nance, giovane della Z generation afroamericana che è l’incaricata di questa campagna influenceristica del Partito democratico, ma nessuno risponde alle email (come nessuno in generale risponde a nessuna richiesta dei giornalisti, qui). Provo a entrare allora, nella lounge dei creatori, mentre risuona la musica, sembra un po’ la sala dell’Ikea con le palline dove i genitori depositano i bambini. Il buttafuori prima mi respinge, poi quando gli chiedo se posso parlare con qualcuno dei creator mi fa cortesemente entrare. “Vuoi fare un po’ di stampa con un giornalista italiano?”, chiede mentre quelli confabulano tra loro. Una bionda segaligna che avrà vent’anni dice sì, poi le chiedo: ma è la tua prima convention, lei si insospettisce: do you have political affiliations? (come nella domanda che ti fanno al controllo passaporti), “devo chiedere al mio publicist”, al mio ufficio stampa, e se ne va. Il buttafuori gentilissimo chiede ad altri creator se vogliono “fare un po’ di stampa italiana”, si propone un nero gigantesco e simpatico, si chiama Jason Linton, nome del profilo Dadlifejason, ha 1,3 milioni di follower su Instagram. “E’ veramente incredibile che uno come me possa essere qui”, dice. “Io posto contenuti che riguardano la mia famiglia, in particolare il tema dell’adozione, è molto importante per noi, per le nostre voci che sono voci comuni d’America che per la prima volta vengono ascoltate”. Come è arrivato qui? “Ho avuto modo di conoscere il second gentleman a Washington, gli sono piaciuti i miei contenuti e mi hanno chiamato”. Ma non mi intervisti? “Sì, lo sto facendo”. Mi guarda il telefono che giace tra le mie mani. “Ah, scritta!”, si illumina, come se fosse il massimo dell’esotismo. Amazing!
L’altra che mi parla si chiama Abiola Agoro, ha grandi occhiali e l’aria allegra, “tu come ti chiami scusa?”. Michele, dico, poi dico Michel, perché per gli americani è più facile. Lei mi guarda serissima. “No, Michele, devi essere orgoglioso del tuo nome e di ciò che sei. Se è Michele è Michele”, dice. Grazie, oggi sono una minoranza oppressa anche io. Chiamami col mio nome, creator. Lei ha solo 31 mila follower. Di che si occupa? “scuola, istruzione. E cani”. Cani? “Perché no? Sono così carini!”. Vi pagano?”Il viaggio e l’alloggio”. “Questa convention passerà alla storia, così daremo un posto in prima fila ai creator”, aveva detto Matt Hill, uno dei capi della comunicazione della convention. “I democratici arriveranno agli americani dove gli americani sono, con gli strumenti per raccontare le loro storie” (non si capisce se le storie degli americani o dei democratici, se stories o storie, boh). Comunque, più che in prima fila, i creator vanno proprio sul palco. Il primo giorno dal palco ha parlato Deja Foxx, 24 anni, filippina di origine, già collaboratrice di Harris quand’era senatrice, ora attivista social per i diritti delle donne. Il secondo Nabela Noor, 3 milioni di follower su Instagram, “lifestyle e beauty creator”, origini giamaicane e indiane, specializzata in contenuti sulla bellezza e tempo libero, è di religione musulmana e fa un Instagram di case un po’ da ricchi e alla convention nelle sue stories ha taggato Abercrombie e Hotel Intercontinental che forse la ospitava e #artistiperilcessateilfuoco mentre fa le prove sul palco, padrona del palazzetto.
Ovviamente i Democratici stanno investendo molto sulla comunicazione digitale. Harris è già stata definita “Queen of meme”, e i loghi “brat” verde e quello della palma e della noce di cocco compaiono sui profili di tantissimi americani. Il cocco si riferisce alla storiella sulla mamma di Kamala che le aveva detto da bambina (“Non so cosa c’è che non va in voi ragazzi. Credete di essere appena caduti giù da un albero di cocco?”). Spesso la noce di cocco compare accanto alla fetta di anguria che significa Palestina, ormai è una frutteria di meme. Ma la frutteria di meme che è questa convention segue una strategia precisa. Mancano infatti solo poco più di 70 giorni alle elezioni e “non si sa quanto Kamala potrà continuare ad andare avanti senza scendere nei dettagli sul suo programma”, dice al Foglio un diplomatico che segue la convention. In effetti a parte qualche vaga posizione sulla classe media, nessuno sa bene cosa intenda fare Harris su Israele, Ucraina, Cina, ma anche su problemi interni, l’economia, le tasse. Così i mille discorsi sentiti qui, tutti edificanti, con le benedizioni del pope greco, del vescovo cattolico, del rabbino, un colpo pro Gaza e uno contro Trump, sembrano fatti apposta per essere spillolati a diversi pubblici, che non si devono incontrare mai. La convention spillolata sembra perfetta per essere distribuita sui cellulari di ognuno di noi secondo quello che ci piace. “Abbiamo delle comunità che ingaggiamo e con cui condividiamo valori”, ha detto Noor.
“L’opinione pubblica come l’abbiamo intesa nel Novecento non esiste più, sono solo una somma di individui ognuno con le sue posizioni e idee”, dice il diplomatico un po’ sconsolato. Se la società è sbrindellata, perché mai un candidato dovrebbe confrontarsi con un vecchio arnese orizzontale come un giornale, con la mediazione per di più di un fastidioso giornalista? Ben vengano community ingaggiate che poi si spera vadano pure a votare. Secondo il Center for Information and Research on Civic Engagement and Learning, il 70 per cento dei giovani hanno preso informazioni dai social, nelle elezioni del 2020.
Lo spillolamento sembra funzionare. Perché non crea conflitti anzi li appiana. Le tanto temute proteste, fuori dallo stadio, sono patetiche, le migliaia di poliziotti in tenuta antisommossa guardano con tenerezza le decine di manifestanti pro Gaza. “Genocidio, genocidio”, dicono quei quattro gatti, ma nessuno se li fila. Meglio l’anguria.
Intanto c’è una gerarchia anche tra gli l’influencer, pardon creator. Jack Schlossberg, trentunenne, figlio di Caroline Kennedy ed Edwin Schlossberg, è il creator ereditario. Nipote diretto di John e Jackie, che erano i suoi nonni, qui ovviamente è trattato come un principe del sangue. E’ la versione rivisitata e aggiornata di John John Kennedy, belloccio ma meno maschio alfa dello zio, ha 360 mila follower su TikTok. Protagonista di un video virale in cui cantava in mood molto brat, viene fermato continuamente tra i corridoi dello stadio da giovani fan e vecchi membri del partito adoranti. Posta foto di sé al trucco, o con diversi vip come Marisa Tomei o Eva Longoria, passa dal podio allo studio televisivo della Cnn, è “internet It boy” del momento. Ha messo una foto di Nancy Pelosi che qui nei corridoi dello stadio gli tocca affettuosamente la spalla, accostata a una simile in cui era suo nonno, JFK, a toccare sulla spalla una giovane e intimorita Pelosi. Ma tra i suoi contenuti ci sono selfie in mutande, in bici, e poi con Kamala, con Biden, col marito di Kamala. Uno dei più cliccati è quello in cui balla alla maniera di Michael Jackson al supermercato. Autobiografia del potere d’America, è stato appena stato nominato “corrispondente politico” per Vogue Usa. Un giornale scritto, ohibò, si è fatto tutto il giro e si è tornati ai giornali. La motivazione dell’incarico: “Ha saputo portare levità in un momento storico di particolare pesantezza”. Il creator ereditario sguazza solo nel “floor”, la platea, però. Non si mischia ai suoi simili parvenu, e al terzo piano non ci mette proprio piede. C’è creator e creator.
*
Micol Flammini, Foglio:
Jon Polin e Rachel Goldberg sono saliti sul palco della convention democratica di Chicago. Sul petto avevano il numero che cambiano ogni giorno e indica il tempo trascorso da quando loro figlio Hersh è stato rapito dai terroristi di Hamas e portato nella Striscia di Gaza assieme agli oltre duecento israeliani, trascinati via dai kibbutz del sud il 7 ottobre. Jon e Rachel sono diventati oratori eccezionali, difficilmente avrebbero aspirato a questa dote, difficilmente avrebbero voluto girare il mondo per raccontare come loro figlio è stato preso in ostaggio mentre era andato a una festa a Re’im. Mai avrebbero voluto trovarsi nella loro Chicago per raccontare di come Hersh ha perso la mano mentre gli uomini di Hamas continuavano a lanciare granate nel rifugio pieno di ragazzi inermi. L’attacco al festival non faceva parte dei piani di Hamas, ma l’idea di una festa di giovani da massacrare piacque ai terroristi che si trattennero a lungo a dare la caccia ai ragazzi.
Mentre i due genitori parlavano, nella platea si vedevano le lacrime. Quando i due genitori pronunciavano lo slogan delle famiglie degli ostaggi – “riportateli a casa” – si sentivano gli applausi. Israele, a Chicago, era sopra al palco, le proteste sono rimaste fuori. I delegati “uncommitted” (non schierati) hanno inscenato i loro silenzi con la kefiah in testa e tappandosi la bocca, ma la convention si è ritrovata unita davanti ai due genitori e alla storia del buio che conoscono dal 7 ottobre. A guardare queste giornate di convention non sembra che il Partito democratico con Kamala Harris abbia intenzione di cambiare rotta rispetto alla direzione impostata da Joe Biden, che pure durante il suo discorso di lunedì non ha mai menzionato Israele e ha detto che chi protesta contro la guerra a Gaza “ha le sue ragioni”. Gil Troy, storico israelo-americano e firma del Jerusalem Post, dice al Foglio che dopo l’apparizione dei genitori di Hersh, la percezione della convention vista da Israele è cambiata drasticamente: “Biden non ha menzionato Israele perché voleva un discorso perfetto, senza fischi. Quando gli israeliani sentono i leader americani parlare, non prestano attenzione alle parole, ma alla melodia. Biden può usare parole per contestare l’operato del governo israeliano, ma la melodia ci dice che capisce e condivide il progetto dello stato ebraico. Tra i democratici non è l’unico che non ha osato”, dice Troy al Foglio, riferendosi al marito di Kamala Harris, Doug Emhoff, che durante il suo discorso non ha voluto parlare molto del suo ebraismo, o al senatore Chuck Schumer, che ha condannato l’antisemitismo del Partito repubblicano ma non ha menzionato le correnti antisemite dei democratici. Sul palco della convention è salita anche Alexandria Ocasio-Cortez, una volta outsider del partito che ha imparato a muoversi benissimo da insider. Nel suo discorso a Chicago, mentre per le strade sfilavano le proteste, ha detto che Harris e Biden si stanno spendendo moltissimo per un cessate il fuoco a Gaza e la liberazione degli ostaggi. “I democratici – dice Troy – per vincere guardano i sondaggi, come tutti. I sondaggi dimostrano che queste elezioni sono su temi come l’economia e l’immigrazione, anche tra i giovani, chi voterà, voterà su questo, non su Gaza. L’effetto dei campus e delle proteste è sovrastimato rispetto al fenomeno. Questa è una considerazione politica che i democratici hanno sicuramente fatto anche quando hanno scelto di portare Israele sul palco. La storia di Hersh aveva tutto il diritto di essere raccontata e la reazione è stata forte, lo ha dimostrato la commozione. Poi c’è un’altra consapevolezza che va trasformata in dato politico: molte delle proteste che abbiamo visto a Chicago non sono neppure a favore di Gaza, sono anti israeliane e antiamericane. Nessun partito può stare ad ascoltarle”.
“In una competizione di dolore non ci sono vincitori”, ha detto Jon Polin. Ad ascoltare lui e sua moglie c’era anche Ilhan Omar, la deputata democratica che durante le proteste nei campus ha aizzato gli studenti e in questi giorni a Chicago partecipa ai ritrovi degli uncommitted. Ha applaudito soltanto quando il padre di Hersh ha detto che è il momento di concludere un accordo per riportare gli ostaggi in Israele e fermare la sofferenza dei civili di Gaza. Alla parola “Gaza”, Omar, ha battuto le mani. Il resto, forse, non lo ha neppure ascoltato.
*
Simona Siri, Foglio:
Clinton aveva la voce tremante, il volto emaciato, il carisma un po’ sgualcito da quell’unica cosa contro cui né lui, né Biden, né nessun altro può vincere: il tempo. La vecchiaia, passata da ostacolo a risorsa, perché adesso riguarda gli altri. A ogni serata della convention democratica, Donald Trump è probabilmente invecchiato di cinque anni. La sua ultima immagine di forza rimane quella subito dopo l’attentato del 13 luglio, il volto rigato dal sangue e quel pugno alzato: fight fight fight. Rimane anche l’immagine di un tipo di mascolinità e di leadership che i democratici con la loro gioiosa, inclusiva e caciarona kermesse stanno spazzando via, sostituendola con uomini definiti semplicemente “good men”, bravi cristi che lavorano seriamente, che hanno un’energia positiva, che non sono egocentrici, che sono rispettosi delle donne così tanto da volerle lasciare libere di scegliere cosa fare del proprio corpo e che non hanno problemi a fare un passo indietro quando le compagne si prendono la scena. Doug Emhoff, marito patatone di Kamala Harris, ne è l’esempio più brillante. Avvocato di molto successo, non ci ha pensato due volte quando Harris è stata eletta vicepresidente: ha lasciato il suo posto nello studio a cinque stelle dove lavorava e si è dedicato a fare il second gentleman a tempo pieno. Il suo discorso molto umano e molto personale fatto mercoledì dal palco di Chicago – e introdotto dal video fatto dal figlio che lo descriveva quasi esclusivamente come marito e padre – è stato un esempio di quello che di solito tocca alle mogli dei candidati: umanizzarli, farli sembrare più simili a noi raccontando episodi teneri della loro sfera privata. Esattamente quello che ha fatto Doug raccontando della loro prima telefonata, del primo appuntamento, della sua goffaggine, del suo amore per una donna che è più di successo di lui. “Mia mamma è l’unica che pensa che sposandomi il colpaccio lo abbia fatto Kamala”, ha detto mentre le telecamere inquadravano la signora Emhoff. “Walz ed Emhoff sono i nuovi modelli maschili di cui il partito aveva bisogno”, confermano i ragazzi di Pod Save America. Doug ha 59 anni, come Kamala, che nella moneta corrente di oggi valgono 40 nella generazione di Biden e di Trump. Dopo di lui è toccato all’attuale candidato vice Tim Walz, già soprannominato il Ted Lasso della politica americana: solo cinque anni fa sarebbe stato impensabile un uomo politico di quel calibro che parla da un palco di problemi di infertilità. Walz, Emhoff, persino Buttigieg, sposato con l’altro adorabile husband Chasten, due figli adottati, una famiglia adorabilmente normale ma molto americana: la mascolinità che esce dalla convention è l’opposto di quella tossica, machista, trumpiana che c’è dall’altra parte, una parte che per attaccare Walz – che da governatore del Minnesota ha passato una legge per mettere assorbenti gratis nei bagni delle scuole pubbliche – lo ha soprannominato “Tampon Tim”: i repubblicani sono quegli uomini che ancora si vergognano di andare in farmacia a comprare gli assorbenti per le loro fidanzate, nel 2024. Jonathan Martin alla Msnbc sull’intervento di Bill Clinton ha detto che l’unico scopo era quello di tranquillizzare l’elettorato più avanti con l’età, fare da garante rispetto a questo passaggio di consegne: potete votarli, non sono troppo comunisti, non sono troppo estremisti, fidatevi di loro.