Il Messaggero, 23 agosto 2024
Intervista a Alessandro Dell’Acqua, stilista
Alessandro Dell’Acqua aveva due sogni nel cassetto: fare lo stilista e fare l’attore. «Di fare cinema ne parlai anche a Pappi Corsicato, a Ferzan Özpetek... ma per ora niente». Ride il designer napoletano, 61 anni, mentre racconta la sua (seconda) passione nel quartier generale di N° 21, il brand che ha fondato nel 2009. Collezioni metropolitane, carnali, con un tocco di "non finito", look taglienti che rendono la sua moda sempre misteriosa. Bene sui mercati europei, impazza in Corea e Giappone. A Milano, il suo studio luminoso ha alle pareti grandi foto di modelle, una vetrata che guarda sui tetti, un tavolo con decine di bozzetti a mano libera.
Come è diventato stilista?
«Da autodidatta, disegnando sempre. Con il diploma di grafico pubblicitario in tasca, a 17 anni, da Napoli sbarcai a Milano. Mi presentai alla stilista Enrica Massei che sfogliò i miei bozzetti e disse: "Cominci la prossima settimana"».
E dopo?
«Gavetta lunga, prima le collaborazioni poi le direzioni creative. Genny ai tempi di Donatella Girombelli e Gianni Versace, Les Copains. Ho imparato tanto. Da La Perla a fare i reggiseni; l’alta moda con Rochas, il conformato con Elena Mirò, e poi Tod’s, Borbonese. I giovani stilisti hanno un problema, si chiama fretta. Il mondo va veloce e loro lo inseguono, a volte non reggono».
Il periodo che più ha amato?
«Rochas a Parigi, sogno realizzato».
Il marchio più ammirato?
«Helmut Lang; ha trasformato il basic in un prodotto altissimo. Miuccia Prada, un’icona. Ha uno sguardo molto italiano, molto cinematografico, quell’ispirarsi a un certo tipo di borghesia italiana. Adesso però preferisco Miu Miu».
Il suo apprendistato con Gianni Versace?
«Allora non lo capivo. Voleva la donna molto femminile, molto sexy, io amavo i giapponesi, l’avanguardia, ovvero l’opposto. Versace mi ha insegnato l’importanza della sensualità nella moda. Ma più di tutto mi colpiva la sua velocità».
In che senso?
«Aveva lo sguardo. Vedeva un vestito e subito sapeva. Questo sì, questo no. Aggiungeva, toglieva: fatto. Lo ammiravo. Detesto chi si crogiola nel particolare, chi medita ore su un orlo».
Nel 1996 lei fonda il suo marchio, Alessandro Dell’Acqua.
«Un inizio folgorante, poi il mio ex socio si sfilò. Ho dovuto vendere ad altri. Mi sono ritrovato a disegnare un marchio con il mio nome che non era più mio».
Doloroso e straniante...
«I cinque anni più brutti della mia vita. Così ho lasciato e ho ricominciato. Ma la moda dimentica, gli amici scompaiono. Dopo mesi di porte in faccia nel 2009 una piccola azienda bergamasca mi ha prodotto trenta capi: mini sfilata e nasce N° 21 (data del compleanno dello stilista, 21 dicembre, ndr). Un successo. A 50 anni mi sono sentito di nuovo ventenne».
La moda italiana fa sistema?
«Negli anni Novanta mi confrontavo con Bluemarine, Neil Barrett, Lawrence Steele: facevamo gruppo, poi ci siamo un po’ persi. Adesso tra i giovani stilisti dominano invidia e competizione».
La competizione è sana.
«Vissuta in modo positivo. Non vedo una squadra che si sostiene».
In Francia la moda fa sistema?
«No, credo sia un po’ leggenda».
Torniamo alla fretta dei giovani.
«L’esempio è la sfilata. Se inviti un giovane collega al tuo show e non ha la prima fila, declina. Io da ragazzo per Helmut Lang a Parigi feci il pazzo per l’invito, ottenni il posto in piedi e vidi solo teste (ride). In questo i social sono stati deleteri».
Cosa hanno dato e tolto alla moda?
«Hanno dato visibilità e popolarità; hanno tolto il sogno e la freschezza. Vedere tutto subito fa diventare tutto subito vecchio».
Ora c’è anche la finanza a dettare tempi e modi.
«La moda adesso non ha potere, si è raggiunto il top e non si potrà che scendere; per cui sarà necessario fare un passo indietro e ricominciare. In questo momento è finanza non è moda, il sogno è rientrato nel cassetto».
Come lavora?
«La mia ispirazione è il cinema. Immagino una sceneggiatura, stati d’animo più che un abito. Da lì partiamo. Disegno a mano libera così come i miei collaboratori, bandito il computer. È solo dalla mano che passa l’attitudine».
Dove si vede fra vent’anni?
«In passato dicevo a 60 anni smetto. Ne ho 61 e sono ancora qui perché è tutta la mia vita. Ma non credo farò come Armani, in pista a 90 anni: mi vedo su un’isola a guardare il mare senza pensare ai vestiti».
Perché fermarsi, se è la sua vita?
«Perché la moda non dà tregua, è un’ossessione giorno e notte».
Lei frequenta anche amici fuori dalla moda?
«Ho solo quelli. A parte il collega Francesco Scognamiglio. Se chiedo ai miei amici "hai visto cosa ha fatto Slimane?" mi rispondono "non so chi sia". E questo è definitivo, no?».
Aprendo il suo armadio cosa c’è?
«T-shirt, jeans, camicie azzurre: basic. Il periodo fashionista l’ho concluso. A volte vado in negozio e mi dico che dovrei comprarmi qualcosa di mio, ma cambio idea. Tanti abiti li ho regalati, tanti sono in archivio».
E l’attore?
«Quel sogno nel cassetto c’è ancora».