la Repubblica, 23 agosto 2024
Intervista a Pupi Avati sugli scout
Bologna - Dice che ha imparato a raccontare storie intorno al fuoco del bivacco. E che a sedurlo è stato il cappellone da cowboy, il coltello in vita, il cinturone. Era il 1947, Pupi Avati un bambino di nove anni nella Bologna del Dopoguerra, che divenne un lupetto.Avati, come mai entrò negli scout?«Ero un bambino di una timidezza quasi patologica, con il complesso del provinciale. Mi sentivo uno che non era bello e nemmeno sportivo, di quelli che non piacciono alle ragazze. Mi convinse mia mamma, era molto cattolica».Che ricordi ha?«Usavamo le tende canadesi e le attrezzature da campo lasciate dai soldati americani, persino il cibo in scatolette dell’esercito statunitense, mi sembrava di essere in un western. È stata una scuola di socializzazione, anche se con le ragazze non è servita a nulla».Quando decise di lasciare?«Ero grande, ormai capo scout, non avrei mai lasciato. Però si venne a sapere che frequentavo gli ambienti del jazz. Era la musica suonata nei bordelli di New Orleans. Fui convocato da una sorta di “corte marziale”, costretto a scegliere tra jazz e scoutismo. La fine è nota, ma è un’esperienza che mi ha segnato: ho imparato la leadership, l’idea di fare gruppo sul set, che non a caso è rimasto lo stesso per tutta la mia vita, la mia squadriglia».