Corriere della Sera, 23 agosto 2024
Intervista a Chiara Valerio, scrittrice
Chiara Valerio, lei è scrittrice e editor, da sette anni alla guida della narrativa italiana Marsilio. In queste pagine, Pietrangelo Buttafuoco ha espresso perplessità sui premi letterari, spesso, a suo dire, «tornei di vanità». E lei con il romanzo «C’è chi dice e chi tace» (Sellerio) ha sfiorato il Premio Strega 2024. È, questo, un riconoscimento sopravvalutato?
«No, perché il Premio Strega è altro: trasmesso in televisione sin dagli Anni 50, è stato il ponte tra la comunità letteraria, spesso percepita come distante, e il mondo di chi legge. Anzi, con “la gente” in generale, perché la trasmissione la guardi anche se non sei un lettore forte. Quest’anno ha vinto Donatella Di Pietrantonio, ma io, da editor, dico che tutti i libri in gara erano ottimi. Quello di Raffaella Romagnolo, per dire, è un romanzo coraggioso in cui si dice che la scuola è l’unico strumento che abbiamo per correggere la Storia».
Nell’albo d’oro le donne sono state poche.
«E infatti sono felice che sia quest’anno che lo scorso, con Ada D’Adamo, lo Strega sia andato a due scrittrici. Anche se io, da omosessuale, mi prendo in giro ammettendo che la differenza di genere non l’ho ancora capita bene».
Delusa per non aver vinto?
«No, perché a 46 anni non avevo mai corso allo Strega se non come editor e l’ho fatto con allegria, godendomi un gruppo bellissimo, in cui abbiamo scherzato tutto il tempo. E poi diciamolo: non sono una che va spesso ai premi, perché è sfiancante. Da anni faccio la spola tra Roma e Venezia, se posso, riposo».
Sempre in queste pagine, Antonio Franchini ha osservato che la letteratura è scomparsa dalle classifiche, ormai dominate dalla «varia», un territorio letterariamente ibrido. Lei che dice?
«Io sono nata e cresciuta a Scauri, nella provincia laziale. Più che librerie, intorno a me avevo le edicole, luogo magico perché accanto ai classici, venduti come collaterali ai quotidiani, c’erano riviste come Skorpio, dove il soft porno si mescolava allo steampunk. Quindi io non credo agli steccati tra letteratura alta e bassa. Noi italiani, a parte Manzoni, non abbiamo avuto una grande tradizione di romanzo popolare, ci siamo dati all’opera. Ecco perché il genere, specie il giallo, ha portato una approfondita analisi sociale. Camilleri è stato un grandissimo scrittore e non dimenticherò mai quando mi disse: “Ci sono scrittori da turris eburnea e scrittori da strada, io scrivo in mezzo alla vita”».
Basti pensare che abbiamo avuto il Gruppo 63 che ha distinto tra «scrittori» e «narratori».
«O anche al fatto che la Riforma Gentile nasce con la divisione tra letteratura e scienza. Noi viviamo di dicotomie, mettiamo steccati ma poi, ancora oggi, quale saggio spiega la politica degli anni di piombo meglio de L’affaire Moro di Leonardo Sciascia?».
Alcuni libri conservano una freschezza intatta.
«Ma anche gli autori: Gadda con il suo modo di unire immagini e parole, riproduce il meccanismo dei meme, e oggi i ragazzi lo capiscono».
Alcuni libri di Moravia secondo lei sono «datati»?
«No, ho riletto Agostino e lo trovo geniale. Sembra che stia parlando dell’educazione sessuale di un ragazzo ma in realtà sta parlando di quella della madre».
Lei nasce come matematica, ha anche un dottorato di ricerca. Però c’è chi dice che guai a chi mette in dubbio la sua bravura di scrittrice.
«La matematica mi insegna a capire i percorsi mentali, e soprattutto mi ha insegnato che nulla è impensabile. Ognuno arriva a delle conclusioni con un cammino personale e questo mi affascina. Per esempio, Michela Murgia arrivava ai concetti attraverso sentieri originali e rigorosi».
Eravate molto amiche.
«Moltissimo. Anche se solo dieci giorni prima che lei morisse abbiamo avuto una delle tante discussioni che hanno costellato il nostro legame. Volersi bene e andare d’accordo non sono la stessa cosa. E io ero spesso in disaccordo con lei, soprattutto nel metodo. Michela diceva le cose a modo suo, veemente, avventato. Però oggi capisco che aveva ragione: quelle cose andavano dette esattamente in quel modo».
Perché?
«Non esiste un modo più morbido per dirle. Michela ha rivelato un mondo quando ha detto che la vera famiglia è quella queer, ma la sua non era una semplice opinione, era un concetto storico-sociale: prima degli Anni 60 e 70, le famiglie erano un insieme di madri, padri, zie acquisite, parenti che non lo erano per legami di sangue ma per cura e frequentazione. Quante persone, da piccoli, abbiamo chiamato “zia” o “zio” senza che lo fossero? Poi è arrivata una forma di edilizia abitativa che ha deciso che la famiglia mononucleare doveva stare nei bilocali. È qui che nasce la tragedia di Ugo Fantozzi: la sua disperazione non viene dal mega direttore galattico, ma dall’appartamento che si affaccia sulla tangenziale».
Paolo Villaggio, tra parentesi, grande scrittore.
«Comico, come lo era Gadda e come lo era Virginia Woolf: le storie di Woolf partono con un forte turbamento ma poi hanno delle svolte improvvise quasi comiche».
Anche Murgia aveva una nota comica?
«Facevamo tanti scherzi a Teresa Ciabatti e a Roberto Saviano. Una volta ne ho fatto uno a lei: Michela detestava un libro e allora io pregai una persona che avrebbe dovuto intervistarla di lì a poco di citarle proprio quel titolo all’inizio della conversazione».
Condivide l’uso dello «schwa» come desinenza per maschile e femminile?
«No, per niente. Come autrice non lo uso e penso che sia sbagliato normare il linguaggio a priori. Siamo la prima generazione che non cerca di definire le cose attraverso la lingua ma che, invece, si lascia definire dalla lingua».
Un linguaggio che non ferisca nessuno è un’utopia?
«Sì, lo spazio di fraintendimento è necessario, quello che non è fraintendibile non porta desiderio, quindi non porta scambio. E poi: se noi possiamo essere trascrivibili in maniera linguistica, vuol dire che la nostra identità è trasferibile in una macchina. Siamo la prima generazione con inclinazione passiva di fronte al linguaggio e alla verifica dei fenomeni».
Che cosa è per lei il successo?
«Franck McCourt mi disse: “Ti auguro di non avere successo troppo presto, se fosse accaduto a me avrei speso tutto in donne, alcol e droga”».
Le fiere sono noiose?
«Ne ho anche diretta una, Tempo di Libri. Però direi di no, visto che ormai hanno preso il posto delle grandi adunate politiche: è al Salone del Libro che avvengono le contestazioni oggi».
Una nicchia politica.
«Berlusconi ha trasformato lo spettatore in elettore, ma lo spettatore, dalla politica, vuole lo spettacolo. Ecco perché ci sembra spesso che i piani, quello politico e quello dello spettacolo, si confondano».
Tra Pavese e Fenoglio chi preferisce?
«Pavese. Tutti noi che veniamo dalla provincia pensiamo che “Un paese ci vuole”».
Lei sta da sette anni con Marcella. Non farei questa incursione nel privato se non sapessi che dietro c’è una storia letteraria.
«Quando l’ho vista per la prima volta incedere nella luce di Venezia, con i riccioli biondi, mi ha ricordato la Margherita di Bulgakov. Un amore che dura perché lei è intelligente e mi fa ridere. In fondo, per citare Natalia Ginzburg, vale sempre il “Ti ho sposato per allegria”».
Ci sarà mai un «ultimo libro» nella storia umana?
«No, almeno fino a quando una macchina non sarà in grado di scrivere I nove miliardi di nomi di Dio, come recita il titolo di un libro di Arthur C. Clarke. Cioè fino a quando il linguaggio sarà misterioso e fraintendibile».