il Giornale, 21 agosto 2024
Biografia di Alfredo Cattabiani
Un mese dopo la morte di Piero Buscaroli, il 15 febbraio 2016, Stenio Solinas pubblicò su il Giornale del 13 marzo un paginone intitolato a quelli che ben definì i «cinque cavalieri contro l’Apocalisse», e cioè: Piero Buscaroli, Giano Accame, Enzo Erra, Alfredo Cattabiani e Fausto Gianfranceschi. Personalità e caratteri diversi fra loro, giornalisti e scrittori attivi in ambiti differenti, ma punti di riferimento imprescindibili negli anni 1970-1990 dei quali si sente la mancanza oggi, e che non si dovrebbero dimenticare ma ricordare e riproporre attraverso i loro scritti eterogenei e proprio per questo indispensabili, considerato che la destra italiana giunta al potere politico non sa più esattamente cosa essa sia e come definirsi culturalmente, quasi avesse paura del suo passato.
Sono queste le prime considerazioni che mi sono venute in mente appena ho visto che è stato ripubblicato dopo 35 anni da Iduna il Bestiario di Roma di Alfredo Cattabiani ed è stata annunciata la sua Breve storia dei giubilei dopo 25 anni. Quindi un altro dei «cinque cavalieri contro l’Apocalisse» è stato finalmente riscoperto e riproposto dopo Piero Buscaroli, le cui opere stanno apparendo presso Bietti, e dopo Fausto Gianfranceschi, di cui sono riapparsi romanzi e saggi contemporaneamente per L’Arco e la Corte, Cinabro e Oaks.
Tutti amici di una generazione precedente la mia con cui ho lavorato e collaborato in alcuni casi gomito a gomito e dai quali ho imparato parecchio. Ora il Fato ha voluto che di due di essi, Gianfranceschi e Cattabiani appunto, mi debba occupare contemporaneamente e questo significa che i ricordi si sommino ai ricordi.
Alfredo Cattabiani (Torino, 26 maggio 1937 – Santa Marinella, 18 maggio 2003) ha dedicato l’intera vita alla cultura tradizionale o sapienziale come amava definirla (destra/sinistra erano per lui termini troppo politici e illuministici), in alternativa più che in contrapposizione a quella in Italia egemone di sinistra o progressista. L’intento della sua vita fu quello di provare che essa era solo ignorata, ma esisteva e poteva essere una valida ed efficace visione del mondo diversa. Ci riuscì, pubblicando, curando, traducendo.
Uno scontro che iniziò, diciamo fisicamente, nel 1960 quando l’illustre prof Norberto Bobbio (ex piaggiatore del Duce e che giurò fedeltà al fascismo per ottenere una cattedra, come scoprì Pietrangelo Buttafuoco) gli scagliò contro la sua tesi di laurea dedicata nientepopodimeno che a Joseph de Maistre. «Una intollerabile provocazione», secondo un tipico modo di dire della Sinistra. Una battaglia che Alfredo condusse in prima linea dal 1962 al 1979 quando diresse le case editrici dell’Albero e Borla a Torino e Rusconi Libri a Milano, presentando una cultura che si riteneva inesistente.
Con la sua direzione delle tre case editrici, Alfredo si propose in crescendo di mezzi di organizzare una produzione alternativa a quella egemone (la cattocomunista, per usare un termine coniato dal filosofo Augusto Del Noce, suo maestro a Torino e dopo) su diversi piani: culturale, ideale, religioso e metapolitico.
Il suo punto di riferimento era la cultura della perennità contro l’effimero, del sacro e dello spirito contro il materialismo, della fantasia contro il neorealismo, della libertà contro il determinismo, della classicità contro il modernismo, dell’idealismo contro lo storicismo e lo scientismo. Era per la civiltà del commento rispetto a quella della critica, come direbbe Zolla, o per la civiltà del tempo rispetto a quella dello spazio, come direbbe Evola.
E nelle sue case editrici accolse tutte le varie anime di questa cultura, perché tutte si opponevano al degrado materialista e becero dominante allora come purtroppo ancora oggi. Ecco perché pubblicò nelle Edizioni dell’Albero ad esempio La grande paura dei benpensanti di Bernanos, o il saggio contro Emmanuel Mounier di Primo Siena, o L’uomo in allarme, il primo libro di Fausto Gianfranceschi; ecco perché per Borla scoprì organicamente Mircea Eliade, messo al bando dagli storici delle religioni progressisti e marxisti con scuse politiche (è noto lo scontro Pavese-De Martino) traducendo diversi suoi fondamentali saggi, la cui lettura ha aperto molte menti, e diede vita sia ad una collana di profili critici di scrittori italiani dove trovò spazio il primo mai pubblicato su Dino Buzzati, sia ad un’altra sotto la direzione di Augusto Del Noce ed Elémire Zolla, quei «Documenti di cultura moderna» che, coperti da un titolo tutto sommato anodino, riuniva autori tradizionali delle più diverse tendenze, da Schuon a Rosmini, da Burckhardt a Weil, da Pallis a Sedlmayr: autori e opere che offrivano una diversa prospettiva ai giovani lettori di allora e che sono stati poi ripresi da altre case editrici sovente immemori di chi per primo li scoprì.
Basterebbe ricordare i titoli della Rusconi, che scelse con la consulenza di Zolla, Principe, Del Noce, per capire la sua importanza. Basterebbe ricordare che fu lui a pubblicare in un unico tomo nel 1970, superando i dubbi di Edilio Rusconi, Il Signore degli Anelli tradotto da Vicky Alliata e ora purtroppo in circolazione nella piatta e banalizzante traduzione di Ottavio Fatica imposta alla Bompiani, suo attuale editore, dalla lobby sinistra capeggiata da Wu Ming 4, che se ne è voluta appropriare lessicalmente e ideologicamente. E che fu lui a pubblicare il famoso pamphlet di Tom Wolfe che canonizzò il concetto di radical chic. Fu assalito dalla intellighenzia nostrana, Umberto Eco in testa: la Rusconi Libri era nata proprio nel 1969-1970 perché faceva parte di un più ampio progetto di restaurazione non solo culturale ma politica in opposizione alla rivoluzione democratica e liberatrice del Sessantotto. Dietro c’erano la Dc, i servizi segreti, i fascisti, la Cia.
Follie? No, carta canta, basterebbe leggere riviste e quotidiani dell’epoca. Bella materia per una tesi di dottorato o un libro-inchiesta.
L’assedio giunse a tal punto che la Rusconi, boicottata su tutti i fronti, cominciò ad emarginare Cattabiani poco alla volta sino a che non fu costretto a gettare la spugna, lasciare non solo la casa editrice ma anche Milano, trasferirsi a Roma dove, se ricordo bene, continuò a curare la cultura de Il settimanale, rivista fondata da Rusconi e poi rilevata da Piero Zullino, diretta da Massimo Tosti e di cui Gianfranco Finaldi era il caporedattore.
Alla sua chiusura però non trovò quell’aiuto professionale che si sarebbe meritato, e poi per via del suo male si trasferì prima a Viterbo e poi sul mare, a Santa Marinella, dove il 26 maggio 2002 organizzò una gran festa con gli amici per i suoi 65 anni, e che con il senno di poi intesi come per lui fosse come una personale festa d’addio perché quasi esattamente un anno dopo, il 18 maggio 2003, ci ha lasciati.
Eravamo spesso in contatto, allora, e mi raccontava di tutte le cure sperimentali cui era sottoposto e che alcune volte lo lasciavano talmente spossato da non poter scrivere o dettare la sua rubrica settimanale su Il Tempo. Ogni volta al telefono esordiva con voce squillante «Come stai?» e io invariabilmente gli rispondevo: «Ma sei tu che devi dirmi come stai!». Ma era fatto così: nemmeno una volta che abbia sentito un suo tono lamentoso...
Questa situazione non ne aveva però rallentato il lavoro, anzi: pubblicò molti titoli (alcuni con la moglie Marina Cepeda Fuentes) e, riordinando vecchie opere e progettandone nuove diede il via a quella che aveva chiamato Storia dell’Immaginario, l’analisi del simbolismo insito nel mondo che ci circonda e che l’uomo moderno laicizzato non percepisce più non riuscendo più a leggere il Libro della Natura, il microcosmo e il macrocosmo. Un’opera d’immensa erudizione ma di stile piacevole e accattivante, che ora mi auguro possa essere ripresentata in modo adeguato: Lunario (1994), Florario (1996), Planetario (1998) ai quali, nonostante la malattia che lo aveva aggredito, aggiunse nel 2000 Volario, nel 2001 Zoario e nel 2002 Acquario – tutti editi da Mondadori. Rimase incompiuto e inedito Terrario, e interrotto il suo enciclopedico progetto e tutto è ahimè andato perduto per sempre. Ero ad una riunione della giuria del Premio Acqui Storia quando mi chiamò una signora che aveva trovato il mio numero nel cellulare di Marina, la moglie, per annunciarmene la morte: mi raccomandai, supplicai quasi, che si custodisse il suo computer dove era l’archivio degli inediti di Alfredo. Non ne ho saputo più nulla. Questa, nell’era tecnologica, la sorte del pensiero digitalizzato.
Al suo funerale venne proiettato un breve filmato in cui, seduto in poltrona e sorridente, con il suo stile d’altri tempi, Alfredo dava l’addio a tutti gli amici.
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