La Stampa, 21 agosto 2024
Intervista a Emilio Isgrò
Sessant’anni fa Emilio Isgrò innovava con un segno l’arte contemporanea. Le sue cancellature, in più di mezzo secolo, si sono trasformate in opere e installazioni esposte in mezzo mondo, da Parigi a Stoccolma, da Madrid a Gerusalemme, fino alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, dove è stato nominato artista dell’anno. «Del resto – dice oggi, sgranando gli occhi azzurri – come fa un artista a non cancellare, visto che è il gesto più naturale del mondo? È come dire che non deve bere acqua».
Era il 1964 quando le sue prime cancellature arrivarono su alcune enciclopedie.
«Ero tornato l’anno prima dagli Stati Uniti, inviato dal giornale in cui lavoravo, Il Gazzettino, ed ero rimasto molto impressionato: una società democratica, ma con segni di forza che mi spaventavano. Tornai a Venezia, dove abitavo, e poco dopo vidi le prime opere della Pop Art».
In quell’anno Robert Rauschenberg vinse la Biennale.
«Fu il segno della potenza di una civiltà che si esprimeva soprattutto visivamente. Gli Stati Uniti erano nati da una commistione di semianalfabeti. Nessuno parlava l’inglese dei Padri Pellegrini, gli americani furono trasformati in popolo grazie al cinema e ai fumetti. Ebbi un presentimento: ma non è che vogliamo fare di tutto il mondo un solo popolo con gli stessi strumenti? E la parola che fine farà?».
E per preservare la parola decise così di cancellarla.
«Reagii spaventato, da artista, per sottrarla all’abuso, e conservarne la sacralità».
Lei ha detto che parola e cancellatura sono la stessa cosa.
«Non si può scrivere senza cancellare. Pensi agli spazi bianchi dei versi di Ungaretti: sono vere e proprie cancellature».
Sessant’anni dopo com’è cambiata la percezione di quel gesto?
«Si è modificato continuamente. Quando ho visto che la cancellatura correva il rischio di diventare una merce, per salvarla l’ho mostrata con una faccia ogni volta diversa».
Ha scritto che il suo lavoro è la messa in scena del combattimento tra parola e immagine. Chi vincerà?
«Sta vincendo la parola. Come si spiega il fatto che gli ebrei si attacchino strenuamente alla Bibbia, i cristiani al Vangelo, i mussulmani al Corano? È stato l’unico modo per rispondere alla civiltà angloamericana, che ha magnificamente monopolizzato il gusto del ’900».
La parola sopravvivrà anche con l’intelligenza artificiale?
«L’intelligenza artificiale sarà sconfitta dal fatto che non contiene l’amore. Prima o poi dovrà arrendersi».
Nel ’56, a 19 anni, arrivò a Milano.
«Il 4 novembre, con la famosa “Freccia del sud"».
Pochi giorni dopo il suo arrivo, il suo primo libro di poesie, Fiere del sud, era in stampa per Schwarz.
«Milano era una città disponibile. Avrei potuto telefonare al più grande gallerista sicuro che non mi sarebbe stata sbattuta la porta in faccia e che non sarei stato trasformato in un servo. I bravi milanesi sapevano che il rischio intellettuale consente il rischio economico, ma oggi in pochi hanno conservato questo slancio».
A Milano conobbe Montale.
«Apprezzò le mie prime poesie. Quando, qualche anno dopo, andai a lavorare a Venezia al Gazzettino e lui perse sua moglie Mosca – quella con la quale lui aveva “sceso almeno un milione di scale” – non sapendo con chi discenderle, mi telefonava e mi chiedeva: “Facciamo una passeggiata?”. Non vedeva bene, allora si agganciava al mio braccio».
Come prese le prime cancellature?
«Si risentì. E il nostro rapporto si offuscò».
In quegli anni incontrò altri poeti, tra cui Quasimodo.
«Un uomo aperto e generoso. La trasformazione postuma da parte di certuni in un personaggio da opera dei pupi è stata ingenerosa».
Nel ’63 Elio Vittorini pubblicò le sue poesie sul Menabò.
«Lo conobbi grazie a Raffaele Crovi, allora suo assistente. Ci teneva a essere siciliano: preparava lo stoccafisso alla messinese, del quale anche Montale era ghiotto».
Cucinava bene?
«In realtà cucinava la moglie Ginetta. Era un uomo molto amabile, ma lapidario. E poteva esprimere il suo essere siciliano solo a tavola, perché in Einaudi, dove lavorava, occorreva fare una letteratura adatta al nuovo mondo».
Conobbe anche Dino Buzzati.
«Recensì con benevolenza la mia prima mostra milanese, nel ’69. Qualche tempo dopo mi mandò il suo Poema a fumetti con questa dedica: “A Emilio Isgrò, affinché mi cancelli"».
Ha avuto molti amici.
«Sì, alcuni anche potenti, ma allora un artista che voleva fare carriera diventava un pària: farsi ricchi con l’arte veniva considerata una mancanza».
Si sente più milanese o siciliano?
«In tempi di unioni civili si possono avere due mamme».
Una risposta un po’ dorotea.
«Sono rimasto siciliano e sono orgoglioso di appartenere a quella cultura, ma senza Milano non avrei combinato niente. È la mia patria di adozione».
Le manca la Sicilia?
«Me ne manca un pezzo, che adesso però sto ritrovando a Scicli: la Sicilia barocca, la Sicilia del carrubo anziché quella degli aranci».
Quando ha capito che sarebbe diventato Emilio Isgrò?
«Quando le persone che non vedevo da un po’ e che adoravo per la loro amicizia cominciarono a darmi del lei».
Fu lusingato o imbarazzato?
«Addolorato. A 87 anni sentirmi dire che sono un maestro o, peggio, un genio, non mi piace: voglio che mia moglie continui a rimproverarmi se non sto dritto a tavola».
Lei è sposato con Scilla Velati dal 1981.
«Lavoriamo insieme, quindi non possiamo non avere un rapporto conflittuale, ma solo fino a sera, quando torniamo a casa. È la classica italiana premurosa dei propri cuccioli. Il punto è che continua a considerarmi un cucciolo, impedendomi di agire come un marito».
Nel suo libro di aforismi scrive che è la vecchiaia l’età dell’arte, non la giovinezza.
«Certo: puoi fare le cose più terribili nella gioventù se sai che il pugno che darai è avvolto da un guanto di velluto».
Che rapporto ha con il tempo che passa?
«Riesco a mantenere l’entusiasmo, ma allo stesso tempo ho acquisito quella saggezza che mi consente di rendermi sopportabile anche agli occhi di chi un tempo non mi sopportava proprio per il mio entusiasmo».
Ha scritto: «non possiamo ridurci a scrivere gialli».
«In realtà a me i gialli piacciono. Ne sto scrivendo uno, ma alla Isgrò: c’entrerà più di una cancellatura».
C’è una cosa che vorrebbe fare e non ha ancora fatto?
«Cancellare il Don Chisciotte nel testo spagnolo, per fugare il sospetto di esserlo anch’io». —