Corriere della Sera, 21 agosto 2024
Jean Pastureau traduttore felice nel labirinto della letteratura
Poche settimane fa è mancato Jean Pastureau, che insieme alla moglie Marie-Noëlle sembrava incarnare un’esistenza vissuta per la letteratura ma dedicata soprattutto e semplicemente a vivere, come dice il motto che si era inventato, fin de vie, faim de vivre. Ciò che colpiva in lui era un amore intenso e ordinato per la scrittura e per la vita che se ne nutre. L’infanzia a Parigi e dintorni, l’insegnamento al Liceo, la collaborazione a riviste, la vita in famiglia con la moglie e il loro figlio Silvère; la scoperta del tradurre che diviene l’appassionato lavoro di entrambi, rigoroso e insieme inquietante perché implica trovare, sotto le parole altre parole, ognuna delle quali ne nasconde un’altra, e quando viene alla luce smuove il terriccio, evoca altre cose al posto delle prime. Tradurre significa ricreare una storia o un destino, facendoli restare sé stessi e insieme diventare altri. Ci sono quattro versi di uno dei più grandi testi di Goethe, Il divano occidentale-orientale, che potrebbero essere il vessillo della traduzione. «È una creatura viva/che in sé stessa si è divisa,/son due che si scelgono/sì che le si riconosca una?». Lo diceva Lea Ritter Santini: la traduzione letteraria ritrae l’originale con fedeltà e con libertà, come l’onda musicale nella grazia di un ballo.
Ciò conferisce un’aura di mistero alla precisione del tradurre, che scopre nuove parole e ne restituisce altre che dicono una realtà viva ma che senza di esse non esisterebbe. Il testo che ha fatto scattare in Pastureau questa forma di vita e di parole è un romanzo di Lalla Romano, Maria, seguito da altri libri di diversi autori, Carlo Emilio Gadda, tanti libri di montagna, libri della mia regione, del Friuli-Venezia Giulia, Giuseppe O. Longo, Mauro Corona, molti libri miei, pressoché tutti. L’avventura del tradurre significa fare proprio il testo che si traduce; «dire quasi la stessa cosa», come suona la definizione che Umberto Eco dà alla traduzione letteraria. E il quasi è un territorio di confine, più volte attraversato ma talora pronto a chiudersi.
Autori come Jean Pastureau fanno toccare con mano la complessità e la gentilezza del tradurre. In passato le traduzioni erano semplicemente letteratura e John Dryden riteneva che il suo capolavoro letterario fosse la traduzione dell’Eneide, mentre Goethe diceva che la versione francese del Faust di Gérard de Nerval era migliore del suo originale tedesco. Per Pastureau i libri letti – libri altrui, soprattutto italiani – sono diventati pure la sua scrittura personale, la sua indagine ma anche la sua invenzione della realtà. Probabilmente per lui non c’è differenza tra essere narratore e traduttore, quasi due arrangiamenti di un’opera linguistica.
Chi avresti voluto essere? La risposta a questa domanda è contenuta nel capitolo forse più bello, L’homme à la mallette, del suo bel romanzo ancora inedito, Les passants essentiels, cui Jean teneva tanto. Una valigia che idealmente contiene quasi tutto – le pagine scritte, le idee su quelle che saranno scritte, le cose da tradurre, la loro immagine che spinge a tradurle, forse un giorno sulla carta ma certo immediatamente nella mente. A suo modo Jean Pastureau è o vuol essere uno scrittore totale, affascinato da ogni suo testo, da ogni sua versione, stesura e diceria sul suo autore come in una fantasia borgesiana o in un romanzo totale simile ad alcuni grandi austriaci, come l’ostico capolavoro Sole e luna di Albert Paris Gütersloh, una specie di Musil barocco e tomista.
Come si dice nel romanzo, c’è un’unica vera eccellenza e «risiede nel sopravvivere». La scrittura è forse un filo di Arianna che aiuta non a uscire dal labirinto ma a penetrarvi da tutte le parti, ad avvolgerlo, in modo da depistare il cammino che vuole condurci verso l’uscita. Chi avresti voluto essere?, si chiede Pastureau nel suo romanzo; la sua scrittura è la risposta, scrivere significa vivere.