Corriere della Sera, 21 agosto 2024
Biografia di monsignor Camisasca
Davvero Antonello Venditti la fece cercare prima di una esibizione all’Olimpico dicendo che senza parlarle non si sarebbe affacciato sul palco?
«Bisogna prima raccontare come ci eravamo conosciuti».
Racconti.
«Io e Antonello siamo amici. All’inizio degli Ottanta mi cercò perché desiderava organizzare un concerto in piazza San Pietro. Aveva pensato a tutto. Persino alla partecipazione del Papa, allora Giovanni Paolo II, che nella sua visione doveva uscire da una astronave mentre lui cantava. Disse proprio così, spiegandomi che Wojtyla per lui era un marziano, un uomo arrivato da fuori dal mondo. Naturalmente non se ne fece nulla, ma iniziammo a frequentarci. Andavo a casa sua e, talvolta, ai suoi concerti dove, ogni volta, gli impartivo la benedizione prima che iniziasse a cantare».
E quella volta all’Olimpico?
«Quella volta non c’ero. Me lo passarono e mi spiegò la situazione. Certo non lo potevo benedire al telefono. Quindi andai all’Olimpico. E iniziò il concerto».
Massimo Camisasca, non è semplicemente un presule. Settantotto anni, lombardo di nascita (quartiere Corvetto a Milano, ma primi anni a Leggiuno sul Lago Maggiore) e per convinzione, è innanzitutto un ciellino. Non uno qualsiasi, c’era e contava già nel gruppo delle origini. Protagonista di incursioni oltre cortina ai tempi della guerra fredda, nell’allora Cecoslovacchia, in Ungheria e Polonia («una volta, mentre incontravo un gruppo di fedeli in un bosco, fummo circondati da un drappello dell’Armata rossa impegnato in una esercitazione: offrii ai soldati dei pacchetti di Marlboro e se ne andarono soddisfatti»). Vescovo di Reggio Emilia per 9 anni. Fondatore della Fraternità dei missionari di San Carlo. Prolifico autore di saggi (85). Nonché romanziere. Per 15 anni in Vaticano è stato l’ufficiale di collegamento tra Comunione e liberazione e il Pontefice.
Si dice che la sua agendina fosse imbattile, che lei avesse i numeri di chiunque contasse a Roma e non solo.
«Chiunque si occupasse di pubbliche relazioni a Roma aveva un’agenda come la mia».
Partiamo dall’inizio. Nei primi anni Sessanta don Luigi Giussani fu il suo insegnante di religione al liceo classico Berchet, a Milano.
«Lo incontrai già prima, a 14 anni. Mio zio era il suo medico. In casa si parlava di lui come di un giovane prete che faceva prediche appassionanti. Conoscerlo fu per me un evento decisivo. Solo con lui capii che il rapporto con Dio è il rapporto con gli altri».
La scelta del seminario è arrivata tardi, dopo la laurea in Filosofia alla Cattolica. Perché?
«Dopo la maturità dissi a Giussani che volevo farmi prete ma convenimmo che sarebbe stato meglio aspettare».
Con in mezzo il ’68, un bel rischio per un aspirante sacerdote. Prima di abbracciare la Chiesa, le è capitato di innamorarsi?
«Il mio ’68 fu drammatico e sereno. Drammatico perché tantissimi decisero di abbandonare il movimento. Sereno perché io rimasi saldo nelle mie convinzioni. Come disse Giussani, questi nostri fratelli ci lasciano perché non hanno capito che l’ideologia marxista non è la strada per affrontare i problemi che essi sentono e noi sentiamo con loro».
E l’amore?
«Sì, mi è capitato di innamorarmi, ma non mi sono mai dichiarato. Le donne però sono state importanti nella mia vita. Penso alla mia amicizia con Piera Degli Esposti. Ci conoscemmo per caso dopo un messaggio che le lasciai nella segreteria telefonica. Cercavo un’altra persona. Lei disse che si era innamorata della mia voce e mi propose di incontrarci. Era disperata, voleva che io facessi tornare in vita in qualche modo una persona a lei cara e appena morta. Che gliela restituissi. Io non potevo certo farci nulla. Da questa impossibilità nacque il nostro legame. Piombava alle ore più strampalate in seminario, dove io ero superiore della Fraternità San Carlo, e recitava i sonetti di Michelangelo. L’ultima volta che l’ho vista, al Sacro Monte di Varese, stava leggendo un testo di Erri De Luca. Mi disse che era diventata buddista e mi propose di fare altrettanto. Declinai».
Durante tutti questi incontri, in una Roma traboccante di cantanti, attori, scrittori, registi, magari non sempre cattolici di stretta osservanza, ha mai tentato di fare opera di conversione?
«Le categorie di vicino e lontano alla Chiesa non mi appartengono. Per citare Sant’Agostino, molti che sono fuori dalla Chiesa sembrano dentro e molti che sono dentro sembrano fuori. I confini sono molto più ampi. Quanto alla conversione, se con questa parola si intende proselitismo, non l’ho mai fatto. Io porto con me ciò in cui credo e mi sono sempre sentito libero di parlarne».
Lei è stato anche cappellano del Milan di Sacchi, dal 1986 al 1990. Sebbene si dica che tifi per l’Atalanta.
«Falso, ho sempre tifato Milan. Questa cosa dell’Atalanta è venuta fuori perché, per essere ordinato sacerdote, nel 1975, mi accolsero a Bergamo in una comunità missionaria. A Milano non mi volevano in quanto ciellino».
Ma il Milan che c’entra con lei?
«Ricevetti una lettera, mi pare a firma Galliani, in cui mi si faceva questa proposta. Immagino che il mio nome sia stato fatto da un cugino di Berlusconi, Giancarlo Foscale, che da ragazzo partecipava agli incontri che noi di Gioventù studentesca organizzavamo sul Lago Maggiore, a Castelveccana. Lì vicino i Berlusconi avevano una villa».
Così ha conosciuto Arrigo Sacchi.
«Siamo diventati amici. Con lui, con Filippo e Giovanni Galli, Franco Baresi, Roberto Donadoni, che già avevo conosciuto a Bergamo, con Paolo Maldini...».
E naturalmente con Silvio Berlusconi.
«Una volta, durante un ritiro di tre giorni della squadra, mi fece salire sul palco e mi chiese quali calciatori partecipavano alla messa. Io gli risposi che non potevo fare nomi, ma aggiunsi: più della media degli italiani».
I ciellini hanno sempre manifestato molto entusiasmo per Berlusconi. Lei, da uomo di Chiesa, che giudizio ne dà?
«Io non giudico. Ho ammirato la sua genialità da imprenditore. E ho apprezzato la sua discesa in campo politico».
Senza alcun conflitto di interessi?
«Magari l’avrà fatto anche per le sue aziende ma si è rivelato uno capace in pochissimo tempo di costruire un partito e vincere le elezioni. Quanti possono dire lo stesso? Naturalmente mi sento lontano dalle sue vicende personali, dai racconti delle cene ad Arcore. Ma non voglio essere moralista. Non si giudica Kennedy solo dal suo rapporto con Marilyn Monroe».
Insomma, secondo lei ha interpretato anche i valori cattolici.
«Cercava un punto di incontro tra il mondo liberale e quello cattolico. Ma non si è accorto che quello cattolico si stava sfaldando».
A Cl non ha fatto male un rapporto un po’ troppo stretto con la politica e con il potere?
«A Cl ha fatto male essere dipinta come un movimento politico. Ciò ha oscurato la sua identità ecclesiale».
Lei è un conservatore?
«Conservatore e progressista sono etichette con un fondamento, ma troppo schematiche. Papa Francesco è conservatore o progressista? La Chiesa è un evento che ha un fondamento. Per poter essere presente nel tempo e nello spazio deve essere fedele alla sua origine e creativa nelle sue forme espressive».
Finirà, o forse è già finita, con una Chiesa minoranza creativa che non ha più bisogno di tutti i beni accumulati nei secoli, come profetizzò Ratzinger nel 1969?
«Già oggi la Chiesa è una persona con un corpo grande, i suoi beni, e una testa piccola, i fedeli. Non riusciamo a dimagrire e a occuparci di evangelizzazione. Bisognerebbe avere il coraggio dei profeti per disfarci di questi beni e descrivere una forma nuova».
La sua fede in Dio ha mai vacillato?
«La risposta che Dio esiste è la più ragionevole. Seppure non in senso matematico».