La Stampa, 22 agosto 2024
L’assalto del cemento alle coste. Come viene privatizzato il mare
Nella insana battaglia, tutta italiana, che si sta combattendo senza esclusione di colpi fra una straminima minoranza di “padroncini delle coste”, che dire corporativi è dire poco, e la stragrande maggioranza di fruitori del libero mare, quello che rischia di rimetterci è, come al solito, l’ambiente. Prima di tutto perché non si sta sfruttando l’occasione al fine di recuperare e riqualificare le spiagge, eliminando, distruggendo e abbattendo tutto ciò che è stato illegittimamente costruito dove non si poteva. Strutture ricettive, bar, ristoranti, spogliatoi tutt’altro che rimovibili, attestati sul patrimonio di tutti, senza alcun titolo, accampando come unica, risibile scusa l’inconcepibile tolleranza delle amministrazioni e i condoni dei governi che non avevano e non hanno alcun diritto di essere concessi lungo i litorali (come recita financo il Codice della Navigazione).
Gli stabilimenti balneari “fissi” e infrastrutturati soffocano e mettono in pericolo gli ecosistemi costieri, distruggono ambienti, portano all’abbattimento delle dune e al prosciugamento delle zone umide. Sono un’aberrazione ecologica che certamente non viene evitata neanche dalle spiagge libere, quando sono fuori controllo, ma che almeno evitano, perfino in quei casi, che si instaurino per sempre strutture e costruzioni.Le spiagge libere sono qualche volta ricettacolo di rifiuti, ma questo significa che abbiamo bisogno di educazione e spazzini, non necessariamente di stabilimenti. Per tacere poi del paesaggio cancellato e delle linee di spiaggia artificialmente alterate nell’illusione di contenere l’erosione: moli, pennelli, barriere e scogliere, oltre ad essere brutti, spostano solo il problema erosivo più a monte o più a valle, non lo risolvono, e, alla lunga, lo aggravano.Ma aspetto culturale particolarmente negativo è dato dall’idea che il mare possa essere considerato privato, isole comprese, come sta accadendo all’isola di Palmaria nel Golfo di La Spezia, che, insieme a Tino e Tinetto, fa parte del patrimonio Unesco e del Parco Regionale di Porto Venere. Si tratta di un’area marina protetta che ospita ancora una piccola prateria di posidonia, ed è una delle rare isole italiane ancora sostanzialmente intatta.Tuttavia, la Regione ha commissionato un Masterplan con l’intenzione di trasformare addirittura Palmaria nella “Capri della Liguria”. Peraltro, la “questione Palmaria” è stata da detonatore dell’inchiesta delle procure di Genova e La Spezia che ha portato all’arresto del presidente Giovanni Toti, del suo capo di gabinetto, Matteo Cozzani (già sindaco di Portovenere) e di altri personaggi della scena imprenditoriale e amministrativa ligure. Il protocollo d’intesa (firmato nel 2016) è stato redatto seguendo le leggi del cosiddetto federalismo demaniale, che prevede il trasferimento a titolo non oneroso alle amministrazioni locali di beni immobili appartenenti al Demanio.Il Comune si è impegnato, sottoscrivendo il protocollo, a restaurare e mantenere in ottimo stato quei beni che rimangono nella disponibilità della Marina Militare. Si tratta di due stabilimenti balneari, evidentemente strategici per la sicurezza del Paese, riservati ai dipendenti o ex dipendenti del Ministero della Difesa e di alcuni immobili adibiti a residenze estive per gli stessi dipendenti. Ma il rifacimento/restauro dei beni della Marina Militare comporta spese di notevole entità che il comune di Porto Venere non può sostenere, se non vendendo a privati tutti i beni che gli vengono trasferiti, ad eccezione dei beni storico-artistici, principalmente fortificazioni e batterie, che saranno dati in concessione pluriennale sempre a privati e trasformati in parte in strutture ricettive. Così verrà realizzata una trasformazione dell’isola sia nella sua natura, sia nella proprietà, che diventerà in gran parte praticamente privata, con la vendita o la cessione per lungo tempo di numerosi immobili.Un altro pezzo di costa infestato da stabilimenti e da “proprietà private”. Dei cinque scenari di sostenibilità ambientale, si poteva scegliere il numero 1, “Palmaria Paradiso della Natura”, con valore di ecologia + 3 (il massimo). Si è, invece, scelto lo scenario 5 bis, che cambierebbe profondamente l’aspetto dell’isola.Dal 1985, quando entra in vigore la legge Galasso che tutela i litorali fino a trecento metri dalla costa, sono stati urbanizzati, nella penisola, ben 302 chilometri di coste con una media di 13 chilometri all’anno “consumati” dal cemento, 48 metri al giorno. In Italia complessivamente sono oltre 3.500 i chilometri di paesaggi costieri trasformati da case, alberghi, palazzi, porti e industrie.In alcune Regioni i numeri raggiungono situazioni incredibili, come in Abruzzo e Lazio dove si supera il 63%, in Liguria il 64% e in Calabria il 65%, e dove si sono salvate solo le aree meno appetibili, con rilievi, o più difficili da aggredire, come foci di fiumi e rilievi montuosi. E i dati devono ancora essere aggiornati. La risorsa spiaggia, nel nostro Paese, è scarsa, visto che per spiaggia si deve intendere meno della metà delle coste e visto che non possiamo considerare appetibili quei chilometri vicini alle foci dei fiumi, alle discariche, ai porti commerciali, agli stabilimenti industriali o infestati da divieti di balneazione, servitù militari, aree cittadine o metropolitane.Invece il tavolo tecnico del Governo ha recentemente statuito che le coste (si badi bene, non le spiagge) hanno uno sviluppo variabile che dipende dalla scala: l’Italia ha circa ottomila chilometri di coste per tutti, salvo che per i balneari, che ne contano 11 mila, allo scopo di dimostrare che la risorsa non è scarsa e invocare la non applicazione della direttiva europea. Nell’attesa di vedere rifatti i conti con la scala 1:1, applicando astute reminiscenze borgesiane, per arrivare a decine di migliaia di chilometri di coste, suggerisco di riprenderci le nostre spiagge e di difendere le isole da un attacco senza precedenti al bene comune. A partire dalle piccole isole ancora intatte.