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 2024  luglio 15 Lunedì calendario

Biografia di Eugenio Finardi (Eugenio Gustavo Finardi)

Eugenio Finardi (Eugenio Gustavo Finardi), nato a Milano il 16 luglio 1952 (72 anni). Cantautore. «Rocker nella prima ora, poi cantautore sensibile e raffinato» (Felice Liperi). «La vera ribellione è stata ribellarsi alla musica ribelle» • Figlio di Enzo Finardi, tecnico del suono bergamasco, ed Eloise Degenring, cantante lirica statunitense. «Non ho mai capito se sono italiano o americano. Sicuramente sono milanese». «“Sono nato a Milano in via San Vittore alla clinica San Giuseppe, ma mi hanno cresciuto da americano. Negli Stati Uniti ho però scoperto che gli americani mi stavano sulle balle. […] L’inglese è la mia lingua madre. L’italiano la mia lingua padre”. […] La musica? “Ci sono letteralmente nato dentro. Mia madre era una cantante lirica. Bravissima. Ma era albina e ipovedente e non riusciva, per via delle luci, a vedere gli attacchi del direttore. Così faceva recital, cantava alla radio, ma non in teatro”» (Mario Luzzatto Fegiz). «Qual è la prima immagine che ricordi da bambino? “Mi torna alla mente l’immagine della finestra della mia cucina a Milano, con la luce che entrava e io che ero lì ad ascoltare alla radio con mia madre la musica classica. Ricordo le voci della Callas e della Tebaldi. Solo molto dopo avrei iniziato ad ascoltare le prime canzoni rock”» (Gianmarco Aimi). «La musica entra ben presto nella sua vita: a nove anni incide il 45 giri per bambini Palloncino rosso fuoco, a dieci partecipa a una raccolta di canti natalizi (Christmas Carols) e a una di brani tradizionali in inglese (English in Action – A Harvest of Traditional Song)» (Enrico Deregibus). «Che adolescente era Eugenio Finardi? “Difficile dividere la mia vita dalla musica già allora. Andavo a scuola al liceo americano in via Spadari e con un gruppo di amici, tra i quali c’era Alberto Camerini, compravamo a turno i dischi e li ascoltavamo insieme. Mi ricordo dov’ero quando è uscito Sgt. Pepper dei Beatles o il primo dei Led Zeppelin. L’aspetto strano è che nell’infanzia ho ascoltato solo musica classica, in particolare barocca e romantica. Ogni tanto arrivava qualcosa di diverso, perché un’amica di mia madre ogni anno le inviava il disco della registrazione del Newport Folk Festival, e così ho sentito Harry Belafonte e i primi bluesmen: questa musica nera mi incuriosiva. Ma è a 13 anni, quando andai a trovare la nonna in America, che scoprii Satisfaction dei Rolling Stones, e così smisi di suonare il pianoforte, comprai una chitarra elettrica e…”. E il resto è storia» (Aimi). «Cresce a cavallo dell’Atlantico, frequentando la Tufts University dalle parti di Boston, ma la lascia quasi subito, e nel 1971, a 19 anni, torna in Italia. Negli Usa non tornerà a vivere, e culturalmente rimarrà un meticcio, sospeso fra le due sponde dell’Oceano. […] Il suo posto giusto, lo trova nella scena alternativa milanese, quella che nel primo lustro dei ’70 raccoglie personalità come Claudio Rocchi e Massimo Villa degli Stormy Six, l’italo-brasiliano Alberto Camerini, l’emigrante catanese Franco Battiato, e di lì a poco il gruppo più influente di quella fusion fra jazz rock ed etnica che sono gli Area. Nel ’71 con Il Pacco, band che raccoglie Camerini, Rocchi, Lucio Bardi, un Walter Calloni ancora teenager, si esibisce al primo Festival del proletariato giovanile di Re Nudo. […] “Io in fondo da ragazzo ero un hippy: guardavo al socialismo di Svezia e Norvegia, all’utopia di amore e gioia, del paradise now, degli yippies. Era un sogno nel quale credevo l’egualitarismo: credevo nella felicità, nella pace sociale, nella possibilità illuminista di evolvere e di elevare il nostro spirito a livelli superiori. In questo senso mi sono iscritto al Pci all’inizio degli anni ’70. […] Non facevo parte di nessun gruppuscolo, di nessuna delle correnti arrivate dopo, da Lotta continua a Potere operaio. Ero, e sono sempre stato, un outsider”. […] Nel ’73 arriva alla Numero Uno, l’etichetta di Mogol e Battisti, dove però “volevano che io diventassi quello che poi è diventato Pappalardo, che io cantassi in inglese con il vocione da nero: Mogol mi vedeva così”. Un singolo e via di corsa. Demetrio Stratos lo porta alla Cramps di Gianni Sassi, un pubblicitario, situazionista per vocazione e (definizione classica dei tempi) un operatore culturale a tutto tondo. È l’etichetta indipendente simbolo di quegli anni. […] Il primo lp degli Area esce nel ’73, quello di Eugenio nel 1975, Non gettate alcun oggetto dai finestrini, come si legge ancora oggi sui treni. […] Rock duro, durissimo anche, belle e lunghe jam strumentali intinte nel rock-funky-jazz. Qualità tecnica e grinta da vendere. Nel giro di un attimo, Eugenio crea una via italiana al rock. […] Non cantautore, ma sorta di cantante solista in una rock’n’roll band, che è tutta un’altra cosa» (Carlo Massarini). «Quello che rivendico è che appartenevo a una storia tutta mia: non scopiazzavo gli americani, non facevo quello che, legittimamente, facevano e continuano a fare i grandi di casa nostra, ovvero prendere il rock e il pop americano e portarlo in italiano. Io facevo cose che potevi definire italiane davvero, con influenze, certo, magari anche la classica ascoltata in casa, ma che a risentirle ancora oggi posso rivendicare come musica originale» (ad Antonio Dipollina). «Il disco è ancora un po’ acerbo, intriso del rock tipico della Milano di quegli anni, così come i seguenti album. I testi sono di impegno sociale e politico, anche se solo l’anno seguente Finardi, quando aprirà parte dei concerti del primo tour di Fabrizio De André, capirà il valore delle parole, fino a quel momento considerate come uno sfogo emotivo, in un’ottica tipica del blues. Il nuovo lavoro, Sugo, rivela una nuova consapevolezza letteraria, anche se più vicina alla prosa che alla poesia. È l’album di Musica ribelle, una sorta di manifesto per Finardi e la sua generazione, un brano che, insieme a La radio, contribuisce a dargli una prima notorietà, anche attraverso una fitta serie di concerti, a volte come spalla della PFM o con Gianna Nannini. La consacrazione arriva nel 1977 con Diesel, a cui segue l’anno dopo Blitz, l’album di Extraterrestre (scritta pensando a due amici, uno dei quali è il giornalista Carlo Massarini), registrato con il gruppo Crisalide» (Deregibus). «Fra il ’75 e il ’78 Finardi pubblicò tre dischi (Non gettate alcun oggetto dai finestrini, Sugo e Diesel) che sono un racconto dell’Italia di allora. Testi che non facevano sconti a nessuno. Più che schierati. Contro il servizio di leva, contro la società borghese, contro le invasioni in Afghanistan e in Vietnam, contro il sistema scolastico: persino il privato diventava politico. Nel giro di due anni, con l’omicidio Moro e altri avvenimenti, cambiò tutto. “Ai concerti c’era violenza, e saltò fuori anche qualche pistola. Dai dischi utopistici passai a quelli realistici come Blitz. Era il momento del riflusso, parola che misi nel testo di Cuba e che una volta ripresa da Panorama finì per indicare quel periodo storico. Extraterrestre parlava dell’impossibilità di sfuggire a sé stessi. Fu un flop. Oggi è il mio successo più grande. Allora mi diedero dell’escapista, del revisionista di destra”» (ad Andrea Laffranchi). «Certezze ideologiche, non ce ne sono più. Eugenio scrive quella che in fondo è una favola, Extraterrestre. […] Al di là della melodia dolce ed evocativa, è una parabola poetica davvero universale, questa volta: non più i due ragazzi che devono mettersi a lottare di Musica ribelle, ma un solitario con lo sguardo al cielo, in cerca di una fuga metaforica che lo riporterà nella realtà. […] C’è un bel salto. Dal militante al mistico. […] Con Roccando rollando nel 1979 si chiude il ciclo Cramps, e si chiude anche un mondo. La morte di Demetrio Stratos, per Eugenio, ne è il sigillo» (Massarini). «Come arrivò alla “svolta cantautorale” degli ’80? “Un po’ mi spinse il mio manager di allora, Angelo Carrara, ma soprattutto dipese dalla nascita, nel 1982, di mia figlia Elettra, che ha la sindrome di Down”» (Andrea Scanzi). «È stato uno shock: ho vissuto periodi di grande confusione, riflessi nell’album Dal blu, che si rifà al blues come dolore, malinconia. Un disco di sentimenti, radicalmente diverso dai precedenti, che mi ha fatto perdere parte del mio pubblico. All’epoca facevo rock, ero testa a testa con Vasco, ma dopo non era più il mio ruolo. Ho cominciato a stare vicino a mia figlia, a crescere con lei e ad affrontare argomenti più profondi» (ad Antonio Lodetti). «Forse sono anche andato in depressione, però ho prodotto Le ragazze di Osaka, Dolce Italia, ero nel gruppo Target con Battiato, Giuni Russo, Alice, ma sempre un po’ da outsider. […] In quegli anni feci anche La forza dell’amore, che divenne una pubblicità per la Fiat e arrivarono due soldi veri. […] Ma a quel punto c’era sempre l’ansia di fare una canzone radiofonica o per Sanremo» (a Paolo Colonnello). «Ho conservato un fax di metà anni ’90 ricevuto dal direttore della mia casa discografica di allora, Massimo Giuliano della Wea. Era firmato dal suo vice: “Caro Finardi, non ci interessano operazioni artistiche, ci interessano operazioni di marketing”. La musica è morta: da arte è diventata prodotto». «Sono uscito dal business nel 2002, quando ho chiuso il contratto con Warner dopo 30 anni di carriera. Ho investito ciò che avevo ereditato dopo la morte di mio padre per finanziare i miei stessi progetti ed evitare qualsiasi interferenza nella fase creativa» (a Rita Vecchio). «Negli ultimi anni Duemila si è dedicato a vari progetti spesso costruiti fuori dagli ambienti discografici e dalla canzone intesa in senso tradizionale. Prima con Francesco Di Giacomo, cantante del Banco del Mutuo Soccorso, e Marco Poeta dedica un disco al fado, poi nel 2003 realizza Il silenzio e lo spirito, un album registrato dal vivo con canzoni accomunate dalle tematiche religioso-spirituali. […] Trascorrono due anni e nel 2005 incide Anima blues, un disco in cui sembra voler recuperare parte delle sue prime passioni giovanili, e nel 2007 la raccolta antologica Un uomo, con cui ripercorre i diversi momenti della sua carriera, accompagnato dalle note di copertina curate da Fernanda Pivano. Il 2008 è l’anno del debutto teatrale di Finardi: ai Filodrammatici di Milano va in scena la prima di Suono, da cui viene estratto l’omonimo dvd, spettacolo in cui l’artista racconta attraverso monologhi e canzoni oltre trent’anni di carriera. Nello stesso anno il suo animo di sperimentatore trova spazio in Il cantante al microfono, disco di musica classica contemporanea per voce e sestetto. Quindi, assieme all’ensemble Sentieri Selvaggi, diretto da Carlo Boccadoro, esegue le canzoni del poeta russo Vladimir Vysockij in una forma vicina al teatro-canzone» (Liperi). Se l’ultimo album di inediti, Fibrillante (un «disco molto rock» con «canzoni anche cattive, per andare a parlare di quello che gira intorno e che mi piace sempre meno»), risale al 2014, nel 2022 Finardi ha pubblicato Euphonia suite. «L’ho pensato come una suite. Il pubblico vuole sentire solo i pezzi vecchi. È un destino triste, malinconico. Allora, piuttosto che far uscire un’inutile raccolta, per festeggiare i miei 70 anni e i 50 di carriera ho scelto una manciata di pezzi storici e li ho reincisi con il pianista Mirko Signorile e il sassofonista Raffaele Casarano: da Soweto a Le ragazze di Osaka, passando per la stessa Extraterrestre. Così evito di fare il cantautore che suona i suoi pezzi seduto su uno sgabello, ma al tempo stesso mi diverto reinterpretando le mie canzoni in chiave swing e jazz» (a Mattia Marzi). «Ci sono canzoni a cui ho rinunciato per forza, come Musica ribelle. È nata per vivere con un suono di una potenza inaudita con basso, chitarra e batteria, e poi ci vuole tanta voce. Non voglio morire sul palco, grazie» • Tre partecipazioni al Festival di Sanremo (nel 1985 con Vorrei svegliarti, nel 1999 con Amami Lara, nel 2012 con E tu lo chiami Dio), tutte rinnegate: «Non avrei mai voluto andarci». Ciononostante, «se mi volessero dare un premio speciale per la carriera, mi piacerebbe. Ma non credo che me lo daranno» • Tre figli: Elettra ed Emanuele dalla prima moglie, Francesca dalla compagna che ha in seguito sposato in seconde nozze, Patrizia Convertino, vedova del noto progettista e grafico Mario Convertino (1948-1996) • «Io sono sempre stato roboante nelle azioni e nelle parole, ma sostanzialmente sono un moderato. Nel Movimento ero considerato un reazionario del Pci perché avevo le mie idee. Dicevano che le mie canzoni facevano la morale, infatti erano dei tazebao. Sono mezzo americano e non sono mai stato marxista, ovvero non sono mai stato contro la proprietà privata. Mi considero un illuminista liberale con il senso della giustizia sociale e della solidarietà». «Sono ancora un compagno, ma non so di chi. La sinistra non c’è più, si è adattata al liberismo, e chi non lo ha fatto esprime solo rabbia e non voglia di sognare». «“L’unico eroe della mia generazione che non ha tradito è stato Nelson Mandela. Ci vorrebbero persone con una visione e che abbiano onestà intellettuale. E, a parte papa Francesco (indugia un po’ prima di continuare, ndr), non mi vengono in mente altri nomi”. È credente? “No, per come intendono la divinità le religioni”» (Vecchio). «Nei mei brani c’è sempre stata tensione spirituale, ma una spiritualità atea, la più faticosa, perché è difficile accettare che dobbiamo andare avanti da soli sulla via giusta, senza poterci appoggiare a un padre creato a nostra immagine e somiglianza e che alla fine perdona tutto. […] Sento il sentimento del divino ma non credo ci sia un essere supremo che regoli l’universo. Il senso del divino è dentro di noi ed è la ricerca della verità. Aver fede invece è accettare la verità rivelata. Io credo nell’assoluto della matematica e della geometria che, rese udibili, creano la musica» • «In Diesel canta che il carburante “è la giusta propulsione per la mia generazione”. Oggi la lincerebbero. Il politically correct uccide l’arte? “Uccide tutto, indebolisce la società. Gli Usa si sono persi dietro queste cazzate e la Russia intanto ha invaso l’Ucraina approfittando delle loro distrazioni: è il mondo reale contro quello delle parole”» (Colonnello) • «In Scimmia, […] nel ’77, ha cantato la dipendenza con un brano molto forte. Cosa scatenò quella canzone? “Lo racconta il testo (“Il primo buco, l’ho fatto una sera/ a casa di un amico…”, ndr), dirompente e pieno di verità, insieme alla musica con basso, batteria e accordi del pianoforte per sostenere l’armonia. La forza stava nell’onestà di scrittura di noi musicisti liberi che cantavamo una canzone vera. Quello era un periodo in cui l’eroina e le P38 arrivarono in modo devastante. La mia generazione fu falcidiata. Quello che c’è stato dopo fu una dura lotta”. Come ne uscì? “Solo una cosa ti tira fuori. Solo una cosa ti salva. E quella cosa è la dignità”» (Vecchio) • Pratica la zumba. «“Il malore del 2021, quando prima di un volo il mio cuore ha cominciato a battere forsennatamente, costringendomi a fare un pit stop in ospedale per scongiurare un infarto, mi ha spaventato. Ora sto bene, ma devo tenermi in forma”. E cos’altro fa? “Pilates, perché alla mia età è importante avere anche una buona flessibilità. E poi porto a spasso il cane”. Eccessi? “Zero. Mi sono liberato di quei panni in tempi non sospetti”» (Marzi) • «Io adoro la tecnologia. Sono un amante del digitale, non sono per il ritorno al vinile. Essendo nato nell’èra analogica, mi ricordo la rottura di palle che era» (a Paolo Italiano) • «Musica, libri, giornali? “Guardo soprattutto le televisioni all news internazionali. Perché non devo mettere gli occhiali. Leggevo e leggo di tutto. Mi piacciono i libri di scienza e di filosofia. La narrativa mi interessa meno”» (Luzzatto Fegiz) • «Che pensa della nuova musica? “Mi incuriosisce, anche perché irrita quelli della mia età (ride, ndr). Io la apprezzo, invece. Propaganda di Fabri Fibra, Musica leggerissima di Colapesce Dimartino, e ancora Ghali e Mahmood (ammetto che non ricordavo che la sua Soldi avesse lo stesso titolo della mia). Mi piace la trap: i groove hanno una bella intensità”» (Vecchio). «Mi piacciono i Måneskin perché mi ricordano di com’ero io alla loro età» • Collezionista di chitarre. «Sono l’oggetto del mio desiderio. Il mio harem. Ne ho 100. Molte le ho costruite io» • Nel 2017 gli è stato ufficialmente dedicato l’asteroide 79826 Finardi. «Quella è la cosa di cui in assoluto vado più fiero. È l’esperienza più pazzesca che mi sia successa nella vita. Quando me l’hanno dedicato, ho subito pensato “Quanto vorrei che mio padre lo sapesse”: sarebbe stato molto fiero di avere un asteroide con il nostro cognome lassù. Mentre, mia madre, l’ho soddisfatta cantando alla Scala» • «Un percorso, il suo, di continui approfondimenti e svolte» (Deregibus). Della sua discografia Deregibus elogia particolarmente Il vento di Elora (1989), «probabilmente il disco più misconosciuto di Finardi, il più equilibrato tra composizione e canto, con l’urgenza di dire mediata da una scrittura matura» • «Una canzone ben riuscita è come una scultura: devi togliere strati di rumore e silenzi, finché arrivi all’opera compiuta» (a Marinella Venegoni) • «Non sono mai riuscito a produrre grandi ricchezze, sia per me che per chi suona con me e per le case discografiche. Sono quella marca un po’ strana di biscotti che trovi solo a volte in qualche supermercato» • «Mai pensato al ritiro? “Confesso di aver accarezzato l’idea della pensione prima del lockdown. Poi i mesi in casa mi hanno fatto capire quanto fossi dipendente da questa vita”. […] Pensa di essere invecchiato bene, Finardi? “Sì. In maniera onesta, soprattutto. Ho imparato le mie lezioni”» (Marzi) • «“Diciamo che ho avuto grandi soddisfazioni senza vendere il culo…”. Mi sembra la sintesi perfetta. “Che poi, se vogliamo dirla tutta, il culo lo avrei anche venduto, solo che nessuno lo ha mai comprato. È questo il problema… Evidentemente sono condannato alla verginità!”» (Aimi).