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 2024  luglio 26 Venerdì calendario

Biografia di Giuseppe De Rita

Giuseppe De Rita, nato a Roma il 27 luglio 1932 (92 anni). Sociologo. Cofondatore (nel 1964) e presidente (dal 2007) del Censis (Centro studi investimenti sociali). Già presidente (1989-2000) del Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro). «Di tutti gli appellativi che le attribuiscono (“il monaco delle cose”, “l’arcitaliano” e via dicendo), quale preferisce? “‘Il monaco delle cose’. Rende bene l’idea della devozione e della fedeltà alle cose che vengono studiate. Mi potrei firmare così, come Giuseppe Gioachino Belli si firmava ‘Peppe er tosto’”» (Vittorio Zincone) • «Mia madre Maria Nota venne a Roma nel 1929 da Pontecorvo, avendo vinto il concorso comunale come maestra elementare. Mio padre Raffaele, cassiere al Banco di Santo Spirito, la raggiunse. Io nacqui nel 1932. Abbiamo sempre vissuto nel quartiere San Giovanni. La finestra della mia camera dava sulla basilica». «Qual è il suo primo ricordo? “10 giugno 1940: la dichiarazione di guerra. Ero ai giardinetti di San Giovanni con mia madre. Le signore romane erano spaventate: avevano capito come sarebbe finita”. Che ricordo ha del fascismo? “Studiavo al Massimo, dai gesuiti, e questo mi evitò il sabato fascista e il passo dell’oca. Dagli altoparlanti della scuola arrivavano Giovinezza e la marcia reale, ma a me piacevano i Puritani di Bellini: ‘Quando la tromba squilla,/ ratto il guerrier si desta,/ l’arme tremende appresta,/ alla vittoria va’”» (Aldo Cazzullo). «C’erano i bombardamenti. Allora si formò ai Giardini dell’Alberata un gruppo di 40-50 bambini che sarebbero diventati adolescenti e, poi, adulti. La metà maschi, la metà femmine. Dai 10 ai 20 anni, abbiamo trascorso insieme ogni momento, tranne le ore di scuola e tranne la domenica, riservata alla messa e alla famiglia. Vivevamo in strada». «I miei amici si chiamavano Scoparo, Bucalice, Amleto Figa Lunga. Ci rubavamo le donne. Ci picchiavamo. Tornavamo a giocare a pallone insieme. A dieci anni avevamo conosciuto la guerra. A dodici la paura fottuta dei tedeschi. A quattordici tutti a fare la comparsa a Cinecittà. Ogni frase, una parolaccia. “Va’ a morì ammazzato”. “Fijo de ’na mignotta”. La vita brulicava. I miei dicevano con orgoglio: “Siamo ceto medio”. Io, però, sono cresciuto come un popolano, in strada. Quando ho conosciuto mia moglie, sono diventato borghese. È lei che mi ha insegnato il valore della rispettabilità, il tono del comportamento, l’ordine come stile di vita» (a Nicola Mirenzi). «Dopo l’Alberata e il liceo Massimo, De Rita studia Legge a Roma e, dal 1951 al 1955, frequenta il Movimento di collaborazione civica: “Nel castello di Sermoneta e nel palazzo di via Botteghe Oscure, la principessa Marguerite Caetani organizzava corsi di educazione degli adulti alla democrazia. L’ispirazione erano gli ideali massonici. Dietro c’erano gli Stati Uniti e i loro servizi segreti. Per ragazzi cresciuti sotto il fascismo e durante la guerra, fu utilissimo”» (Paolo Bricco). «Si parlava di psicanalisi, di libido, di liberazione. Si alzò una mia coetanea, Maria Luisa: “Io sono terziaria francescana, queste cose non le posso accettare!”. Sarebbe diventata mia moglie». Nel 1955 entrò allo Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno), «il più illustre centro studi del dopoguerra, dove presero forma la cultura dello sviluppo, la Cassa per il Mezzogiorno, il Piano Vanoni e l’esperienza di programmazione; e dove spuntò all’improvviso, nella metà degli anni Cinquanta, e sette o otto anni prima della introduzione della prima cattedra italiana di Sociologia, una sezione sociologica. Fu una iniziativa pensata e gestita da Giorgio Ceriani Sebregondi: un personaggio di grande livello intellettuale prematuramente scomparso nel 1958, a soli quarantuno anni. […] Io fui assunto come generico laureato in Giurisprudenza; ma Sebregondi, che pensava in grande, volle provocarmi a pensare anch’io in grande, prospettandomi un impegnativo programma: dobbiamo anzitutto fare tanta ricerca sociale, diceva, per far capire che l’approccio sociologico è importante quanto quello economico; dopo penseremo a redigere un rapporto sociale che accompagni la “Relazione economica generale” (l’unico testo di reporting di quel periodo); successivamente penseremo a costituire un centro studi tutto dedicato alla ricerca e alla politica sociale; infine, se ci va bene, potremo pensare di progettare e proporre un ministero degli Affari sociali. Ho ripercorso spesso questo asse di progressione (espressione tutta sebregondiana) da quando, dopo il ’58, sono rimasto solo a condurre la sezione sociologica; e specialmente dopo il ’63, quando, licenziato dallo Svimez con tutti i miei collaboratori, ho creato e gestito (con Gino Martinoli e Pietro Longo) il Censis, dando una faticosa attuazione al secondo dei mandati originari». A licenziarlo, il 6 novembre 1963, era stato Pasquale Saraceno (1903-1991), cofondatore e presidente dello Svimez. «Mi scrisse una lettera in cui mi diceva che non reggeva più il peso dell’azienda. Da qui la decisione di liquidare il nostro gruppo, anche se per me aveva tenuto un posto. A quel punto ci riunimmo: liberi tutti o una nuova avventura? Andai da Saraceno: “Se lei ci cede i contratti, ci mettiamo in proprio”. Lui accettò». «Il Censis nacque allora. A incoraggiarmi fu Tommaso Morlino, l’intellettuale di Moro: “Lascia perdere la programmazione, fai fenomenologia”. Dalle idee alle cose». Con la fondazione del Censis, «ero diventato un imprenditore privato, senza alcuna copertura pubblica. Ma, pur da imprenditore privato, mi misi subito all’opera per coagulare l’idea di un rapporto annuale sulla nostra situazione sociale. Non c’era più da competere con l’ormai stanca “Relazione economica generale”, ma intanto era esplosa, per merito di Guido Carli, la saga delle “Considerazioni finali” del governatore della Banca d’Italia. Misurarsi con esse, con la loro enorme base documentaria e il loro straordinario impatto mediatico, appariva una demenziale tentazione narcisistica, ma alla fine ci incamminammo comunque nell’avventata impresa. […] Mettemmo insieme un nostro progetto di poche pagine, da veicolare possibilmente presso le due sedi pubbliche che avrebbero potuto avere interesse a sponsorizzare l’iniziativa: la segreteria generale della Programmazione e il Cnel. La segreteria della Programmazione aveva a quell’epoca altro a cui pensare (la stesura e l’implementazione del primo, e poi unico, Piano quinquennale), e non avrebbe potuto darci udienza. Andammo allora dal presidente del Cnel Campilli, scortato dai suoi due uomini di fiducia, Domenico De Sossi e Giuliano Graziosi. Gli misi davanti il progetto e gliene spiegai il senso sociopolitico. Campilli sfogliò con calma le paginette, chiese qualche chiarimento, domandò quanto la cosa potesse costare. Io dissi timidamente: “Dieci milioni” (di lire). Poi, dopo un pensoso silenzio, disse solo una frase, con il suo tono da generone romano: “Se po fa’”, si può fare. […] Così, nell’autunno del 1967, comincia l’avventura del Rapporto Censis». «Fu importante il passaggio dalla pianificazione e dalla previsione a lungo termine – questa era la cultura dello Svimez – all’analisi dei fenomeni sociali. La svolta avvenne sul finire dei Sessanta. Il nostro direttore si trasferì a Prato, e fu lì che scoprii l’economia sommersa» (a Simonetta Fiori). «“Tutti avevano almeno due mestieri. Il conducente dell’autobus pubblico lavorava dalle 8 alle 14, poi andava a Livorno con la giardinetta a ritirare le balle di stracci sbarcate dall’America, le riportava a Prato, dove venivano lavate nel Bisenzio – inquinamento mostruoso —, quindi riciclate nelle piccole fabbriche. Mi portavano nei sottoscala a vedere i telai, azionati ogni ora dai vari membri della famiglia: ognuno aveva la sua sveglia. Evasione fiscale totale. Contributi, questi sconosciuti”. Non si fa. “Certo che no. Ma questa è la gente che ha fatto l’Italia. Toccavi con mano la voglia di vivere e di guadagnare, la volontà di potenza”» (Cazzullo). «Tornato a Roma, pensai: “Ammazza, proviamo a vedere se pure qua ci sta il lavoro nero”. Non fu difficile scoprirlo. Il direttore dell’Atac mi raccontò del tentativo di spostare uno degli autisti più anziani al turno serale, dalle 18 a mezzanotte. Una tragedia. Era uno di quelli che provvedeva ai fochetti delle prostitute a Tor di Quinto. Cinquemila lire a fochetto. Con una notte di lavoro guadagnava quanto una settimana sull’autobus. […] Con gli anni Settanta cominciava la grande fenomenologia italiana. In quel decennio s’è raddoppiato lo stock delle aziende: da 490.000 a oltre un milione. Tutti facevano piccola impresa. […] E cominciava la grande avventura di Cernobbio. C’erano Agnelli, Schimberni, Berlusconi che suonava il piano e cantava. Io stavo al tavolo con Andreatta, Colombo e Prodi. Quando arrivavo, l’Avvocato mi accoglieva: “Ecco l’amico degli stracciaroli”. Ero considerato altra cosa rispetto a loro, però stavo lì. Ero ammesso come uno che poteva parlare dell’Italia alla stessa stregua di Prodi. […] Quando nel ’78 uscì il nostro rapporto sul sommerso, la piccola impresa e il localismo, mi telefonò Acquaviva: “Craxi vuole che gli spieghi cosa hai scritto”. Io vado da lui. “Senta un po’, ma lei ci crede davvero, a tutta questa vitalità dell’economia italiana?”. “Beh sì, io ci credo, che vuole che le dica?”. Mi credette: sul localismo e sul sommerso costruì la sua onda lunga. Era un’Italia ricca di fermenti. Per noi che dovevamo raccontarla, una vera manna. Tra gli anni Ottanta e Novanta il made in Italy si è innamorato della finanza. L’immagine prevaleva sui contenuti: a me non piaceva. […] Noi preparammo un rapporto sulla “società dello spettacolo”. Mi ricordo che a un convegno di Mediaset Gianni De Michelis partì in tromba: “Dove sono questi imbecilli che dicono che siamo società dello spettacolo?”. Lì ci fu la rottura con il craxismo. Buona parte delle imprese, che aveva scelto la finanza, cominciò a guardarci con sussiego. Ci consideravano, non dico superati, ma “scarpari di Fermo”. Poi è accaduto un paradosso. La fine della Prima Repubblica avrebbe dovuto comportare anche la fine d’un certo modo di fare cultura: io ero considerato cattolico, democristiano – non lo sono mai stato, ma, insomma, portato alla mediazione… Invece l’arrivo della Seconda Repubblica ci ha restituito spazio. Nel senso che è aumentato il casino e c’era bisogno di noi. Il nostro nemico è solo un potere molto vigilante. Ma, fin quando c’è disordine e vitalità, noi non abbiamo problemi». «Tra le ragioni del vostro successo c’è stata l’invenzione di un lessico: “economia sommersa”, “localismo industriale”, “cetomedizzazione”. Come nascevano queste espressioni? “L’esigenza era di dare un nome alle cose. Venimmo accusati di fare, con i nostri rapporti, folclore economico. In realtà cercavamo di interpretare le pulsioni profonde del Paese. E spesso ci riuscivamo”» (Antonio Gnoli). Venendo all’attualità, «l’analisi che ti aspetti è facile: Paese impoverito e diseguaglianze esplose significano rischio di tensioni sociali e terreno fertile per i populismi. Giuseppe De Rita […] spezza l’assioma: “Per arrabbiarsi serve una delusione, ma qui non abbiamo alcun sogno da molti anni. Ognuno cerca solo di arrangiarsi e proteggere il proprio orticello. È un momento di grande stasi: dopo il periodo dei vaffa, è l’ora della bonaccia meloniana. […] Una fase di ritiro dopo quella del rancore, in cui viene premiato chi chiude il recinto e ci dice di stare sicuri e protetti nelle nostre reti e nel nostro cortile di casa”» (Gabriele De Stefani) • Polemiche, nel 2014, quando nominò il figlio Giorgio segretario generale del Censis. «Conta il brand De Rita. Ci sono 50 anni di De Rita insieme alla parola Censis e non si può pretendere di mantenerlo? È una strategia voluta e precisa mantenere insieme il binomio De Rita e Censis». «Chi se ne frega, se qualche giornalista ha avuto da ridire» • Numerose profferte di candidature (a sindaco di Roma, ministro, presidente del Consiglio), puntualmente declinate. È stato spesso citato anche tra i possibili senatori a vita e presidenti della Repubblica (nel 2006 ottenne diciannove voti, nel 2013 uno). A proposito della sua candidatura al Quirinale nel 2013, confessò a Giorgio Dell’Arti: «Sapevo che il mio nome circolava… Io vado sempre in vacanza dalle parti del Monte Bianco e mi metto di fronte a lui a contemplarlo, e ho fatto così pure questa volta. Ce ne siamo stati per un pezzo uno di fronte all’altro a guardarci negli occhi: io guardo negli occhi il Monte Bianco e il Monte Bianco guarda negli occhi me… Stavamo così a guardarci negli occhi, e a un certo punto il Monte Bianco mi ha detto: “Come te vedo piccolo…”. Il Monte Bianco parlava perfettamente in romanesco» • Vedovo dal 2014 di Maria Luisa Bari, l’amore di una vita, con cui ha avuto otto figli (sei maschi e due femmine). «“I figli sono venuti per allegria. Era un’avventura divertente. E in questo avevano ragione i nostri genitori, che ci trattavano da incoscienti. […] Primo figlio, grandi festeggiamenti al bar del tennis. Secondo figlio, giusta soddisfazione. Terza gravidanza, gelo totale. ‘Ma siete matti? Come pensi di pagare gli stipendi del Censis?’, mi apostrofò mio padre. Al quarto, sempre al solito caffè, scoppiò la tragedia: mia suocera mi trattò come se fossi il violentatore di sua figlia. Tornati a casa, Maria Luisa scoppiò in lacrime: ma ti pare che debbano fare così?”. E al quinto figlio? “Niente appuntamento al bar del tennis, ma un telegramma così concepito: se oggi siamo in sei a cantare mapin mapun, in ottobre saremo in sette a cantare mapin mapun. Stesso telegramma, con numerazione variata, per il sesto, settimo e ottavo figlio”» (Fiori). «“Ne volevamo dodici, come le tribù di Israele”. […] Sua moglie non c’è più. “Dopo l’ultimo parto la sua ginecologa, Sandra Scassellati, moglie del mio amico Ubaldo, mi disse: ‘Peppe, ora basta, altrimenti si consumerà’. Forse otto gravidanze l’hanno consumata. Comunque aveva 82 anni”» (Cazzullo) • Cattolico praticante. «Qual è stato il suo papa prediletto? “Giovanni XXIII. Finalmente un uomo normale, dopo un Pacelli così rigido, ieratico. Ho stimato moltissimo Montini, ma dopo tre udienze capii che mancava l’empatia. Empatia che ho ritrovato solo con Ratzinger: questione di meccanismi intellettuali”. E Francesco? “La sua relazione alla conferenza latinoamericana di Aparecida, nel 2007, è meravigliosa: la Chiesa né piramidale né rotonda ma sghemba; la periferia più importante del centro, il processo del luogo… Poi mi ha deluso. Ma mi rendo conto che una cosa è fare il papa, un’altra coordinare la conferenza di Aparecida”» (Cazzullo). «Per lei, è più importante Cristo o la Chiesa? “La Chiesa. Nessuna istituzione vive due millenni se si fonda su una sola persona”» (Mirenzi) • «Mai saltato un voto. Lo considero un dovere morale: disapprovo la logica del “me ne frego” o del “tanto sono tutti uguali”. […] Ma non ho mai dichiarato il voto» (a Stefano Cappellini) • «L’Italia è come un bambino tra gli otto e gli undici anni. Vive nella fase che Sigmund Freud chiamava stato di latenza. Ha ossa, carne, cervello, ma non è ancora formato dall’adolescenza, né sfidato dal futuro. E dunque è come sospeso. […] Purtroppo ci siamo consumati la classe dirigente. E la classe media non è mai diventata borghesia: non ce l’abbiamo fatta. Pasolini lo diceva sempre a me e a Paolo Sylos Labini: l’italiano non sarà mai borghese, rimane un piccolo borghese. Anche nel governo, nel Parlamento, dominano i piccoli borghesi. Ci vorranno cinquant’anni per esprimere un’identità neoborghese e avere una fascia sociale di borghesia medio-alta. […] Manca la capacità di creare identità e punti di riferimento. La politica si fa con i soggetti collettivi, con élite capaci di visione e di sintesi. Con i leader individuali si ottengono vittorie di opinione, intrinsecamente volubili. Esaltare l’opinione è stata la tragedia dell’Italia. Ha prodotto la cultura della rissa, dell’“uno vale uno”, dello scontro senza sintesi. Le stesse trasmissioni televisive si costruiscono su format che puntano sul contrasto di opinione: vedi i talk show. Ha creato un mondo di opinione, non di pensiero né di vero dialogo» (a Massimo Franco). «Resta il problema della denatalità. […] “È un tema di lungo periodo: non si fanno figli per tante ragioni, ma non per motivi strutturali o socioeconomici”. Non è colpa del precariato? “No, né dell’assenza degli asili nido”. Siamo tutti più egoisti, allora? “E narcisisti. Oggi conta solo quel che facciamo noi, non i figli. […] Manca un traguardo. Gli asili nido possono essere utili, ma va ricreata un’idea di futuro che superi l’egoismo”» (Francesco Rigatelli) • «Non si è ancora stufato di raccontare l’Italia? “Rispondo con i versi di Continuità di Mario Luzi: ‘Forse quanto è possibile è accaduto,/ ma da te si rigenera l’attesa’. Ogni volta che mi avvicino alla realtà italiana, da Torino a Napoli, quasi in una dimensione onirica, scopro qualcosa di nuovo che non immaginavo prima. Per questo voglio sempre bene a questo Paese”» (Rigatelli) • «Qual è il segreto della longevità? Mangiare poco? “No. Vivere bene le cose belle. Come la casa di Assisi, dove sento mia moglie ancora viva. O come i supplì. Spesso la domenica sera, quando avevo tutti i figli per casa, cenavamo in piedi, a base di supplì…”» (Cazzullo) • «Ho avuto una vita bellissima. […] Non ho nostalgie né rancori. Non sono un fatalista, ma un creaturale. Il Signore mi ha messo al mondo, e Lui mi verrà a prendere». «“Sulla mia lapide vorrei un passo del Salmo 83: ‘Lo Spirito mi porta avanti, di passo in passo, con vigore sempre crescente, fino a comparire davanti a Dio in Sion’”. […] Come immagina l’aldilà? “Mi affido al Padre. Sono una sua creatura. Secondo il Talmud, l’oltretomba è una scuola, dove ci si interroga su tutto. In questi novant’anni non ho fatto altro: interrogarmi su tutto. Tra poco, speriamo non pochissimo, Dio mi darà le risposte”» (Cazzullo).