Corriere della Sera, 21 agosto 2024
Convention di Chicago: la carica degli Obama
CHICAGO – Il sipario si chiude su Joe Biden e si riapre su Kamala Harris. «America, ti ho dato il meglio di me stesso», ha detto il presidente, circondato sul palco da tutta la sua famiglia: è l’immagine che avremmo visto nell’ultima serata della convention se Biden fosse stato nominato candidato del partito alla Casa Bianca, ma la sua carriera si chiude con il primo mandato e quella resterà una foto ricordo. «Quando avevo 30 anni mi dicevano che ero troppo giovane per fare il senatore, adesso dicono che sono troppo vecchio per fare il presidente». I cartelli sollevati in aria dai delegati, con la scritta «I love Joe» e – in piccolo nell’angolo – «Pagato dalla campagna di Kamala Harris» raccontano da soli la storia del capovolgimento di questa corsa per la presidenza.
Ed è toccato ieri a Barack Obama, l’ex presidente 63enne che ha avuto un ruolo nel ritiro di Biden, tenere il discorso più atteso della convention: doveva presentare Harris come leader già pronta a guidare il Paese grazie al ruolo di vicepresidente, ma anche distinguerla e separarla da Biden trasferendo su di lei l’aura di speranza e cambiamento che nel 2008 lo spinsero con forza alla Casa Bianca. Un’acrobazia non a caso affidata al più grande oratore del partito che insieme alla moglie Michelle resta la figura più amata dagli elettori democratici. Hanno parlato entrambi, ciascuno col suo stile. «Lei è come una pianista da concerto, lui un jazzista che improvvisa», ha detto ieri, ad un evento del sito Axios, David Plouffe che fu manager della campagna di Obama nel 2008 ed è da poco stato arruolato da quella di Harris. Barack aveva il compito di mettere a confronto l’America di Harris con l’America di Trump, rievocando e riadattando un suo vecchio slogan («Non esiste una America conservatrice e una progressista, un’America nera e una bianca, ci sono solo gli Stati Uniti d’America»). Obama fece un’operazione simile anche nel 2016 quando, da presidente, passò il testimone a Hillary Clinton; ma Kamala rispetto a Hillary verrà presentata con più insistenza come una donna che capisce la middle class perché ne fa parte. Quanto a Michelle, lei che è una figura culturale più che politica, ha puntato a spiegare che Kamala è la persona giusta per lo Studio Ovale perché girerà pagina sulla paura e le divisioni.
Barack e Kamala si sono conosciuti 20 anni fa. Alle primarie del 2016 per la Casa Bianca, Harris appoggiò Obama e non l’allora favorita Hillary Clinton. «Incontrai Kamala per la prima volta ai caucus in Iowa, bussava alla porte delle case per noi ogni giorno, nel gelo – ha raccontato Plouffe ieri —. Capisce l’attivismo ed è simpatica, umana... Direte che sono all’antica, ma penso che essere una brava persona abbia valore in politica. Lei lo è, Trump no».
Una differenza enorme rispetto al 2016 è che allora i democratici pensavano che Hillary avrebbe vinto facilmente. Non più. Da una parte Plouffe sostiene che l’onda di Kamala durerà: «Molte star in ascesa quando si candidano alla presidenza si sfaldano sotto la luce dei riflettori, lei invece ha retto alla prova, anche se ci saranno momenti in cui la stampa ci mette nell’angolo, come accadeva con Obama». D’altra parte lo stratega aggiunge: «Trump otterrà il 46-48% dei voti, non scenderà al 42 o al 44%. Questo significa che noi dobbiamo fare meglio. Come? La nostra forza è che negli Stati in bilico oltre il 50% delle persone non vuole ritornare a Trump». Sarà una battaglia durissima, con distanza di uno o due voti in alcuni distretti nei sette Stati in bilico. «Ho visto un’energia, una voglia di fare che mi ha ricordato il 2008», ha detto Plouffe dopo un incontro con i delegati della Pennsylvania, che tra i sette è il più cruciale. Così ieri Harris ha lasciato suo marito Doug Emhoff a parlare alla convention ed è andata con Tim Walz in un altro Stato in bilico, il Wisconsin.