Avvenire, 21 agosto 2024
Intervista al patriarca di Gerusalemme dei Latini Pierbattista Pizzaballa
Mentre soffiano i venti gelidi della guerra è imprescindibile fermarsi e chiedersi: c’è qualcosa per cui vale la pena vivere e sperare?». Monsignor Niccolò Anselmi legge con passione il messaggio di papa Francesco. Forse ripensa ai tanti anni vissuti alla Pastorale giovanile della Cei. Sicuramente, si sintonizza con il cuore giovane del Meeting che brama la pace, ma l’ospite, pochi minuti dopo, lo gelerà. «Spero che coi negoziati si arrivi a qualcosa, anche se ho un po’ di dubbi». E ancora: «Perdonare senza che ci sia dignità e uguaglianza significa giustificare un male: il perdono ha dinamiche che richiedono tempo». A parlare così, durante l’intervista con il presidente del Meeting Bernhard Scholz che ha inaugurato ieri mattina la 45esima edizione della kermesse riminese, è uno degli uomini che più si spende per la pace in Medioriente, il patriarca di Gerusalemme dei Latini Pierbattista Pizzaballa.
Anche lui ricorda quand’era giovane, gli anni della parrocchia nella Bassa Bergamasca, la scoperta della vocazione, il seminario a Rimini, il saio francescano… Anni dopo, ma ancora giovane, eccolo in Palestina, muovere i primi passi di un trentennale dialogo interreligioso del quale è un indiscusso protagonista. Esperienza esaltante e sconvolgente, come quando una donna ebrea racconta – gli chiese “Gesù è affascinante anche senza la resurrezione, ma allora perché lo dovete far risorgere?”. Persino Pizzaballa dovette rifletterci su a lungo su quella insanabile distanza: «La Resurrezione non si spiega, la resurrezione si incontra. Nei Vangeli non trovi la spiegazione della Resurrezione ma l’incontro con il Risorto. Una volta condivisa quell’esperienza, la fede aiuta a illuminare quello che sei».
Aiuta persino a non spendere parole di speranza quando non c’è molto di cui sperare ed infatti il porporato di fronte alla platea del Meeting ammette che in Terra Santa «siamo in un momento dirimente con il dialogo… ma non so se è un dialogo».
Il cardinale che si è innamorato da giovanissimo della concretezza del Santo di Assisi, ricorda innanzi tutto che «il rischio è pensare a Gesù come un’entità astratta, mentre non c’è nulla di più reale dell’incontro con Cristo e oggi quell’incontro significa chiedermi continuamente cosa Gesù mi dice, cioè deve diventare il criterio di lettura delle situazioni di dolore, divisione, fatica, per trasferire quest’esperienza alla mia comunità, in un contesto lacerato».
Questa concretezza guida la sua analisi di quello che chiama “l’ultimo treno”, un negoziato che se non porta a un cessate il fuoco reale potrebbe innescare una «degenerazione». E quando commenta «ci è rimasta solo la preghiera» non sembra parlare un prete ma uno dei tantissimi palestinesi o israeliano che sono ostaggio dell’odio. Già, perché, persino più delle armi, crepita l’odio: «La guerra finirà, in un modo o nell’altro, ma ricostruire la fiducia sarà una fatica immane che ci dovrà impegnare tutti», commenta.
Nessuno si aspettava un Pizzaballa diverso, a Rimini. Aveva già detto ad Avvenire che la pace non è uno slogan e ieri ha ripetuto che la guerra innescata dall’aggressione a Israele, il 7 ottobre, ha portato ad una «esagerazione dei sentimenti che c’erano già: odio, vendetta sfiducia e incapacità di riconoscere l’esistenza dell’altro… Io e nessun altro, come scrive Isaia di Babilonia. Il rifiuto dell’altro oggi si respira ovunque. La guerra finirà – certo e spero che coi negoziati si arrivi a qualcosa anche se ho un po’ di dubbi ma sappiamo tutto che questo negoziato è l’ultimo e che se treno se non arriva un cessate il fuoco è drammatico, si ha una degenerazione. Ci è rimasta solo la preghiera».