il Fatto Quotidiano, 20 agosto 2024
Gianluca Di Feo racconta la sua intervista a Borsellino
Paolo Borsellino seduto nel salone di casa sua il 30 giugno 1992. Mentre parla di mafia e riciclaggio al Nord con un giornalista, tira fuori out of the blue il nome di Silvio Berlusconi. Il giornalista è Gianluca Di Feo, venuto apposta per lui da Milano. Sono passati 37 giorni dalla strage di Capaci. Mancano 20 giorni alla strage di via D’Amelio.
Il giornalista gli parla di Giuseppe Lottusi, un finanziere arrestato nell’ottobre del 1991 perché aiutava i clan mafiosi a riciclare i proventi del narcotraffico, Borsellino con un guizzo negli occhi, sua sponte dice una frase tipo: “Sono tanti gli imprenditori in grado di riciclare 10 milioni di lire, ma se devi riciclare 10 miliardi di lire gli imprenditori che possono farlo si contano sulle dita di una mano e uno di quelli che avrebbe questa capacità è Silvio Berlusconi”. Questo è il ricordo di Gianluca Di Feo, 57 anni, figlio di un generale dei carabinieri, autore di grandi scoop al Corriere della Sera, in testa l’avviso di garanzia nei confronti di Berlusconi, nel 1994, a 27 anni, insieme a Goffredo Buccini. Caporedattore a L’Espresso (quando chi scrive era lì) poi per sette anni vicedirettore di Repubblica, autore di un paio di libri con Raffaele Cantone, dal 2023 prima firma del quotidiano diretto da Maurizio Molinari sulle questioni militari.
Di Feo non approfondì quel giorno il tema e non fece la classica seconda domanda. Anche perché non conosceva fatti inediti allora che ora sono di dominio comune.
Solo ad aprile 1994, dopo la vittoria di Berlusconi, L’Espresso pubblicò stralci dell’intervista ‘sparita’ dei documentaristi Pierre Moscardo e Jean Caude Zagdoun. In quel colloquio, il 21 maggio 1992 due giorni prima della strage di Capaci, Borsellino svelò (ripreso in alcuni tratti del colloquio a sua insaputa) di avere vaga notizia di un’indagine su Marcello Dell’Utri e Vittorio Mangano a Palermo. Alla domanda se Berlusconi fosse coinvolto disse di non saperne nulla e di essere comunque vincolato al segreto. Definì però il fattore della villa di Arcore di Berlusconi nel 1974 una “testa di ponte” della mafia al Nord. Sempre dopo la sua morte e l’uscita dell’intervista dei francesi si scoprì che l’indagine su Dell’Utri in realtà non esisteva. Men che meno su Berlusconi. C’era solo un proscioglimento milanese su Dell’Utri del 1990 per una presunta associazione a delinquere fino al 1982 con Mangano. Nel 2017 lo storico collaboratore dei due pm uccisi, Giovanni Paparcuri, ha scoperto per caso nell’ex ufficio di Falcone un suo appunto del 1989 frutto di una chiacchierata fuori verbale con Francesco Marino Mannoia: “Cinà in buoni rapporti con Berlusconi”, scriveva Falcone di Tanino Cinà, il mafioso processato con Dell’Utri. “Berlusconi dà 20 milioni a Grado (un altro mafioso, ndr) e anche a Vittorio Mangano”. Quando Di Feo va a parlare con Borsellino ha un altro interesse.
Questo è il suo racconto: “Tutto inizia con un mio articolo su un traffico di armi uscito a giugno 1992. Al centralino del Corriere arriva una telefonata anonima che mi mette in guardia con una velata minaccia. Su quella storia erano volate mazzette riciclate negli stessi canali seguiti dalla mafia. Se ne stava occupando Falcone prima di saltare in aria. I miei capi mi suggerirono di andare a parlarne con Borsellino. Tramite un ufficiale dei carabinieri di Milano, Nicolò Gebbia, venerdì 26 fissai un appuntamento con lui per il 29 giugno, lunedì, nel suo ufficio a Palermo. Alle 16 ero lì, ma aspettai Borsellino invano. Non c’era e i suoi collaboratori mi dissero che non era raggiungibile anche per loro. Alle 20 andai all’hotel Villa Igea deluso. Borsellino mi rispose verso le 22 sul cellulare. Si scusò. Mi disse che aveva avuto un impegno non previsto. Mi diede un nuovo appuntamento a casa sua alle 7 e 30 (‘De Feo’ è segnato sull’agenda grigia, ndr) perché poi doveva volare a Roma. L’incontro durò mezzora circa e questo è quel che ricordo: Agnese ci fa un ottimo caffè. Borsellino mi fa accomodare in un salone luminoso. Gli faccio sentire la telefonata sul mio registratore e gli chiedo se Falcone si stesse occupando davvero di armi e riciclaggio. Lui ascolta con atteggiamento paterno, avevo 25 anni allora, e mi dice che non mi può aiutare perché non sa nulla di quel che stava facendo Falcone. Sui traffici di armi di quel tipo mi dice che non interessano a Cosa Nostra. Il riciclaggio invece sì. Allora io porto il discorso sui canali comuni del riciclaggio dei soldi sporchi di corruzione, imprese e mafia. In quel contesto lui mi dice che quelle figure vanno cercate a Milano e il problema non è trovare chi ricicla piccole somme, ma cercare le figure in grado di riciclare miliardi di lire. Io gli dissi di Lottusi, che lui conosceva bene. Mi rispose che le figure da vedere sono di altro tipo e lì mi fa come esempio il nome di Berlusconi. Quel nome lo tira fuori lui. Io parlai solo di Lottusi. Lui passò da Lottusi a Berlusconi con un guizzo negli occhi. Disse una cosa tipo: ‘Bisogna guardare a figure come Berlusconi, che avrebbe le capacità economiche per fare questo tipo di operazioni’. Attenzione era un esempio. Non disse che indagava su Berlusconi. Non disse che avrebbe voluto farlo. Non parlò di Mangano o Dell’Utri. Perché non scrissi nulla? Era un colloquio confidenziale. E poi per me Berlusconi allora rappresentava Canale 5, il Milan, una realtà lontana da Palermo. Dopo la morte non aveva senso tirar fuori il nome di Berlusconi così. Nel 1994 quando ho letto i passaggi dell’intervista ‘sparita’ di Canal Plus su L’Espresso ci ho pensato e mi son detto che non avrei aggiunto molto. Ci ho ripensato quando una fonte della Direzione Nazionale Antimafia mi fece capire che lavoravano sulle stragi di mafia su una pista che portava a Berlusconi”. Del colloquio Di Feo scrisse sul Corriere il giorno della morte ma senza fare cenno al guizzo di Borsellino su Berlusconi. Magari lo avrebbe detto a un pm di Caltanissetta se lo avessero chiamato quando lui trasmise, come gli aveva suggerito di fare Borsellino quel giorno, il testo della telefonata anonima al centralino con un fax, ma nessuno si fece vivo. Chissà che non sia la volta buona. La Procura di Caltanissetta ha archiviato da molto tempo la pista che vedeva indagati Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi del 1992.
Ora sta indagando a fondo invece sul possibile legame tra la strage di via D’Amelio e l’interesse di Borsellino per il rapporto ‘Mafia-appalti’ del Ros che citava anche i legami con imprese vicine alla mafia della Calcestruzzi di Raul Gardini. Il 30 giugno, mentre Di Feo lo aspettava nel Palazzo di giustizia, Borsellino stava parlando con Fabio Salamone, allora pm ad Agrigento nonché fratello dell’imprenditore Filippo Salamone, protagonista secondo il Ros del sistema del tavolino ‘Mafia-appalti’. I pm Salamone e Borsellino, secondo Agnese, “rimasero nello studio in un colloquio riservato per circa tre ore”. Borsellino avrebbe detto a Salamone salutandolo sulla porta: “Io ti consiglio di andar via dalla Sicilia”. Salamone dà una ricostruzione diversa: “Il colloquio sarà durato un’oretta circa. (…) lui riteneva a rischio la mia situazione e mi invitò a venire a Palermo (…) mi disse che allo stato non gli risultava nulla a carico di mio fratello (…)”. Il 30 giugno 1992, subito dopo aver visto Di Feo, Borsellino vola a Roma nella sede dello Sco e alle 12 e 40 interroga il collaboratore di giustizia Leonardo Messina tra l’altro su un appalto messo a posto con Angelo Siino, arrestato un anno prima per il rapporto ‘Mafia-appalti’ del Ros. Il 1º luglio 1992, Messina dice a verbale che Totò Riina “è il maggiore interessato della Calcestruzzi Spa che agisce in campo nazionale”. Però nei successivi interrogatori non gli fa domande sulla Calcestruzzi del Gruppo Ferruzzi. E su una cosa Di Feo è deciso: “Borsellino, quando parlammo di riciclaggio al Nord, mi fece il nome di Berlusconi, non quello di Gardini”.