il Fatto Quotidiano, 20 agosto 2024
Pensioni, ha vinto Fornero. Anche quest’anno si taglia
Il tempo delle grandi battaglie contro la riforma Fornero è finito, quello dei programmi elettorali di partito e coalizione che ne promettevano lo smontaggio pure, la destra di governo sulle pensioni ha fatto poco e ora farà anche meno, mezzo miliardo in meno pare: la spesa pensionistica è l’ossessione della Commissione Ue e, con l’entrata in vigore del nuovo Patto di Stabilità, tornano ad avere una certa cogenza le “raccomandazioni” di Bruxelles. Le ultime dicono che la spesa previdenziale sta aumentando troppo, dinamica “ulteriormente aggravata dai programmi di pensionamento anticipato”: bisogna lasciar lavorare la “riforma del 2011” (Fornero), che produrrà risparmi “a condizione che venga attuata integralmente, anche limitando i regimi di pensionamento anticipato”. È proprio quello che il duo Meloni&Giorgetti s’appresta a fare, stringendo ancor più le viti già strette l’anno scorso, mentre Matteo Salvini continua a promettere, come ieri, di “aiutare l’uscita dal mondo del lavoro per chi non ce la fa più, superando i vincoli della legge Fornero”.Ripartiamo da capo. La seconda metà d’agosto è quella in cui inizia a girare il pallottoliere del Tesoro per la manovra d’autunno: quest’anno girerà vorticosamente anche perché bisogna consegnare alla Commissione europea il piano di consolidamento settennale previsto dalle nuove regole fiscali europee. Il risultato è che i vari meccanismi di uscita anticipata saranno ulteriormente depotenziati, finendo per sparire in un paio d’anni: in soldi significa che il capitolo previdenza dovrebbe perdere circa 500 milioni nel 2025, quasi dimezzandosi. Ottenere quel risparmio è semplice: basta stringere i criteri d’accesso o rendere ancora meno conveniente di oggi andare in pensione.
In generale le uscite anticipate dal lavoro sono già crollate per effetto dell’ultima legge di Bilancio. L’Ape sociale ad esempio – che riguarda disoccupati, invalidi civili e addetti ai lavori gravosi – è ridotta ai minimi termini, come pure Opzione donna, destinata alle lavoratrici con 61 anni d’età, 35 di contributi e in situazione di disagio familiare accertato (ha riguardato solo 2 mila persone nel primo semestre 2024). L’anno prossimo le maglie saranno anche più strette, destino che toccherà pure a “Quota 103” (62 anni di età e 41 di contributi), che sarà confermata ma probabilmente con ulteriori penalizzazioni. Il ministro Giancarlo Giorgetti preferisce semmai premiare “i meritevoli”, quelli che restano al lavoro più a lungo: non è escluso che gli incentivi agli stakanovisti vengano pagati da una nuova riduzione dell’indicizzazione all’inflazione delle pensioni esistenti (già falcidiate dal caro-vita in questi anni), probabilmente quelle più alte.
A breve, insomma, in campo resterà solo la legge Fornero, che la destra prometteva di abolire (“flessibilità in uscita dal mondo del lavoro e accesso alla pensione”, recita il programma di coalizione del 2022). Il partito che più si era esposto sul tema, come detto, è la Lega, che in queste settimane prova a trovare una strada per evitare la figuraccia. Destinati a finire i vecchi meccanismi, al Tesoro hanno già bocciato “Quota 41” che è la proposta base del Carroccio per superare la Fornero: pensione con 41 anni di contributi, indipendentemente dall’età (oggi è 42 anni e 10 mesi per gli uomini e un anno in meno per le donne). Problema: costa 9 miliardi l’anno a regime. C’è pure la versione “light” con l’assegno calcolato tutto col metodo contributivo, quello in vigore per i versamenti post-1996: il risultato, però, sarebbe un taglio del 20% medio delle pensioni erogate…
Fin qui la distanza tra propaganda e governo, poi c’è lo spazio delle pericolose boutade. Ben due sottosegretari leghisti – Claudio Durigon (Lavoro) e Federico Freni (Economia) – hanno buttato lì che è ora di “rompere il tabù” e obbligare i lavoratori a cedere il 25% del loro Tfr alla previdenza complementare: così la pensione di chi oggi è giovane, dicono, non sarà proprio da fame. Idea bizzarra visto che si tratta di una partita di giro dalla dubbia legittimità (la legge sancisce il diritto di scelta) e nella quale il lavoratore rischia di perdere soldi: gli si prende un 25% di salario differito (il Tfr) per ridarglielo un po’ al mese, ma con una rivalutazione che potrebbe essere meno conveniente rispetto alla liquidazione.I soldi gestiti dai vari fondi pensione, in questi anni di alta inflazione, hanno perso valore in modo vertiginoso, mentre il Tfr – che è rivalutato al 75% dell’inflazione per legge – ha di fatto tenuto. Il favore, così, lo si fa solo ai colossi del risparmio gestito, cui evidentemente non bastano ad aumentare la leva i trucchetti (tipo il silenzio-assenso) con cui si accaparrano i soldi dei lavoratori.