la Repubblica, 21 agosto 2024
Ilaris Salis è andata a San Vittore. Dice che è un inferno: «Anche l’Italia viola i diritti dei detenuti»
Ilaria Salis è tornata in carcere, ma la destra non esulti: questo non è l’incipit della notizia che vorrebbe leggere. Piuttosto è l’inizio dell’attività politica, sul campo, dell’insegnante di Monza che il voto europeo ha liberato dal pozzo ungherese dov’era precipitata un anno e mezzo fa. L’aveva detto che una volta fuori si sarebbe occupata di detenzione e detenuti, col piglio di chi ha vissuto qualcosa che non augura a nessuno. L’azione, tuttavia, deve passare dalla conoscenza diretta. Dunque Ilaria Salis alle 9 di ieri mattina, accompagnata da due collaboratori, si è presentata al cancello della prigione più sovraffollata d’Italia mostrando il tesserino da europarlamentare. «Visita istituzionale». Prego, entri pure, hanno risposto i piantoni di San Vittore.
Tre mesi esatti dopo aver riguadagnato la libertà, eccola di nuovo tra mura di cinta, le celle, le finestre sbarrate. Questa volta il cammino è sciolto, senza il tintinnio di catene che ritmava il passo costretto. Però i fantasmi ci sono ancora, non se ne sono mai andati. I volti persi, il tempo fermo, la costrizione, l’assenza. Le mani dei detenuti che penzolano stanche da sbarre d’acciaio quasi sempre chiuse. «Quelle mani erano anche le mie, a Budapest», racconta aRepubblica l’eurodeputata. «Mi sono rivista nelle stanze soffocanti, dove dormono in tre e non possono alzarsi dalla branda perché non hanno spazio. Ho rivissuto la sensazione di smarrimento quando i detenuti stranieri che ho incontrato mi hanno detto che sono dentro da due mesi e non hanno ancora potuto fare una telefonata». Lei dovette aspettarne sei di mesi. Riuscì a mandare una lettera a suo padre Roberto in cui raccontò tutto: i ceppi alle caviglie, il guinzaglio durante le udienze, i giorni senza neanche gli assorbenti, i topi. Stavolta Ilaria Salis ascolta le storie degli altri, prende appunti, immagina come lei, a Strasburgo, potrà essere utile alla popolazione carceraria nell’anno del record dei suicidi.Tre ore di visita, nella calura agostana di Milano. Con lei la vice direttrice della casa circondariale e il vice capo delle guardie penitenziarie. «Il sovraffollamento in Lombardia ha numeri spaventosi – dice Salis – Solo a San Vittore è del 221 per cento, può ospitare 450 persone e ce ne sono più di mille. Gli assistenti sociali sono assegnati in base alla capienza e non alle presenze, sono oberati e questo impedisce i colloqui per la messa in prova e il passaggio alla semilibertà».Salis ha visitato il reparto femminile, la sezione dei giovani adulti dove stanno gli under 25, l’infermeria e un raggio del maschile. «Ho cercato di parlare il più possibile con i reclusi, ne ho incontrati tanti». Molti l’hanno riconosciuta, Ilaria, Ilaria, la chiamavano, sei quella che è stata per tanti mesi nella galera di Budapest, le dicevano. Le hanno mostrato i tagli sulle braccia e sulle gambe, le fasciature, le cicatrici, i segni dell’autolesionismo. E lei, «forza», «dovete resistere», «fatevi coraggio».San Vittore non è paragonabile al penitenziario di massima sicurezza di Gyorskocsi utca a Budapest, dove il regime della democrazia illiberale teorizzata da Orban rinchiude criminali e dissidenti, ma anche qui si avverte la lesione dei diritti. «Qualcuno attende da più di un mese di sapere quando potrà essere visitato da un medico. E ci sono stranieri, il 75 per cento dei reclusi a San Vittore, che non riescono a chiamare a casa e le famiglie li danno per dispersi…». Di nuovo i fantasmi ungheresi, lei in una cella in condizioni inumane per 15 mesi, sei dei quali senza contatti con il padre e la madre.Ilaria Salis non ama mostrare emozioni, non si sente un simbolo per nessuno, né dà peso alle continue polemiche della destra sul suo passato di attivista del movimento per la casa e di occupante di immobili. Le parole escono a fatica quando le si chiede di raccontare com’è stato il ritorno in carcere, seppur ora da libera. «A San Vittore ho provato tristezza e rabbia», risponde. «Tristezza perché donne e uominirinchiusi mi fanno ripensare al mio dolore. Rabbia perché vedo violazioni gravissime, come nell’accesso alle cure mediche. Sulle carceri l’Italia sta tornando indietro. Solo nel femminile e in un raggio chiamato Nave le celle sono aperte, come dovrebbero essere. Altrove sono sempre chiuse, tranne che nelle ore d’aria e di s ocialità. Stiamo regredendo. Quindi sì, è rabbia che provo, perché nessuno dovrebbe stare così».Quest’ultimo “così” va spiegato, perché ha un significato duplice: Ilaria Salis intende sia l’attuale situazione di emergenza in cui affoga il sistema, sia il carcere come istituzione in sé. Nelle misure su cui sta tergiversando il guardasigilli Nordio per alleviare il sovraffollamento non nutre alcuna fiducia: «Non serviranno a rendere più tollerabile la vita dei detenuti, e non credo nemmeno gli interessi farlo. L’unica logica che segue questo governo è punitiva e vendicativa». Tre sono i provvedimenti immediati per cui Salis s’impegnerà politicamente: «Favorire al massimo il ricorso alle pene alternative, garantendone l’accesso a tutti coloro che ne hanno diritto ma non hanno mezzi economici né un domicilio perché stranieri». La questione di classe, in cella, divide chi esce da chi resta dentro. «Bisogna poi limitare l’uso del carcere per chi è in attesa di giudizio. E, infine, depenalizzare i piccoli reati contro il patrimonio compiuti per necessità, chi ruba nei supermercati perché ha fame e non ha lavoro, chi occupa una casa perché non può permettersi un tetto e gli enti che gestiscono l’edilizia popolare non assegnano le abitazioni sfitte».San Vittore è stata la prima incursione in un penitenziario per l’eurodeputata che ha conosciuto il carcere ungherese per necessità, e ora vuole conoscere quelli italiani per missione politica. Ne seguiranno altre, di visite. «Io però credo che si debba andare verso una società che superi il carcere…». Eccolo il secondo così. «Davanti ai rapporti di ingiustizia un approccio è l’espulsione delle persone dalla società, chiuderle in un luogo per sentirsi al sicuro e non prendersene più carico. Io penso invece che si debba lavorare sulle cause, sulla prevenzione, creando una società basata sulla giustizia e l’uguaglianza. Poi c’è sempre chi sbaglia, l’obiettivo deve essere il reinserimento nella società, invece di concentrare un sacco di persone in un unico luogo dove anche se entri pulito esci criminale». E anche questa è Ilaria Salis, prendere o lasciare.