Corriere della Sera, 20 agosto 2024
Mary de Rachewiltz, figlia di poeta, poetessa vera
Nella cultura italiana Mary de Rachewiltz è conosciuta anzitutto per essere la figlia di Ezra Pound, il fondatore del modernismo poetico novecentesco, quindi per il suo cospicuo lavoro di traduttrice di poesia – Denise Levertov, Robinson Jeffers, Edward Estlin Cummings, ma soprattutto i Cantos, la più importante opera del padre (la cui traduzione, che impegnò Mary suppergiù per trent’anni, è uscita in versione integrale nel 1985, per il centenario della nascita di Pound) – quindi anche per le sue proprie poesie, buona parte delle quali scritte direttamente in italiano.
Del 1965, ad esempio, è il suo esordio in versi, Il diapason, per le edizioni di Vanni Scheiwiller, che da quel momento diventò il sollecito mentore di Mary e della sua poesia. Sempre per Scheiwiller usciranno infatti Di riflesso (1966), Processo in verso (1973) e Polittico. Poesie 1985-1995 (1996), mentre hanno trovato casa presso Raffaelli Gocce che contano (1994) eCanzoniere (2002). Sono questi, dunque, i suoi libri di versi, che adesso, con l’aggiunta di svariati testi inediti, sono stati raccolti insieme, ed è la prima volta, in un volume di un certo rilievo: Processo in verso. Tutte le poesie italiane (Bertoni Editore), ben curato da Massimo Bacigalupo, non a caso il più autorevole tra i nostri studiosi dell’opera di Pound.
Mary de Rachewiltz è giunta ormai sulla soglia dei cent’anni (è nata a Bressanone il 9 luglio 1925), e di conseguenza non sorprende che nel lungo corso della sua attività poetica abbia fatto riferimento a tante diverse occasioni della sua ancor più lunga esistenza, a partire da quel Tirolo in cui per lo più è vissuta e che costituisce lo scenario più ricorrente dei suoi versi. Queste poesie danno conto di molti viaggi e sopralluoghi – in varie parti d’Italia, in Africa, in Inghilterra, negli Stati Uniti, o magari nel mondo della letteratura, vale a dire nei libri e nella poesia degli altri (a chi volesse saperne di più, si consiglia il libro-intervista firmato da Alessandro Rivali, Ho cercato di scrivere il Paradiso, Mondadori, 2018). Eppure gli elementi primi del suo immaginario poetico sembra averli attinti direttamente dalla terra natale, cioè da quello che ha visto e toccato da bambina, e che ha continuato a contemplare quasi ogni giorno aprendo le finestre di casa: la natura, la terra, le persone, le pratiche del lavoro nei campi, gli alberi e gli animali, il cielo, il movimento dell’ora, il trascolorare delle stagioni.
Tuttavia parlare di terra natale, come si è appena fatto, non dovrebbe essere così scontato. Anzi, dalla prima all’ultima poesia del libro quella dell’appartenenza, della radice, dell’identità, risulta una questione aperta e contesa; una questione, infatti, che le poesie non risolvono mai una volta per tutte, ma che semmai, nel momento stesso di metterla a fuoco, configurano volta a volta in modo diverso (viene in mentre proprio Pound, quando parlava dell’energia poetica come di una «forza che trasfonde, salda e unifica»). Al riguardo si deve per forza accennare alle vicende biografiche di Mary, che frutto di un amore extraconiugale, peraltro assai durevole, del padre con la violinista americana Olga Rudge, fu data in affidamento a una famiglia di Gais, in quel Tirolo in cui sarebbe cresciuta e avrebbe poi prevalentemente vissuto. E allora: terra natale o d’adozione, patria o esilio? È proprio questo il rovello che attraversa la sua opera poetica e che, come detto, non trova mai una composizione unica e dirimente. Anche se questo, d’altro canto, non significa affatto che sia una poetessa compiaciuta della lacerazione immedicabile. Al contrario, sembra considerare la scelta del buio senza ritorno profondamente immorale nei confronti della sacertà e del valore della vita, e della responsabilità che a tutti noi ne deriva. Nelle sue liriche si trovano anche diverse occasioni di contemplazione estatica, non a caso. E, del resto, Mary scrive con mano ferma (è persona, si direbbe, di molto solidi principi), ma con un verso fresco e breve, e sempre con una grazia e una presenza di spirito che sembrano venire da un fondo inamovibile d’ironica benevolenza, che è come dire di saggezza.
In ogni caso, c’è nell’io poetico una sfasatura, una ferita ch’è anche una continua domanda, ed è attorno a quest’asse problematico che negli anni sono nate le poesie. Riducendolo all’osso, lo si potrebbe indicare come l’incontro-scontro tra due versanti, due anime, due possibilità diverse: quella, diciamo così, tellurica, e allora la formazione popolare e contadina, il lavoro manuale, la natura, l’imprinting dell’infanzia, il senso del luogo con le sue radici («Al mio paese/ conosco i patri lari/ e l’altare segreto»); e quella, tutto all’opposto, della grande famiglia intellettuale americana, dell’espatrio, del cosmopolitismo, degli amici scrittori, della babele delle lingue, della letteratura non più come retaggio popolare, ma come raffinata e anche mirabile, se pure ambigua, costruzione intellettuale e artistica («Dopo Dio e il Tirolo/ terra d’esilio/ s’intende io amo te/ America mia patria/ e di bastardi/ intenti a proteggere/ i falsi nomi»). Ma è vero poi che questa scissura si stende dappertutto: anche le poesie d’amore, che qui sono tante, rimpiangono o vagheggiano la possibilità d’unione di due parti sempre a rischio di dividersi.
Del resto, sono tanti anche i riferimenti a culture occidentali e non: il modernismo, i miti antichi, l’oriente, l’Africa, la religione cristiana, i libri poetici della Bibbia, il retaggio popolare; proprio come, dal punto di vista della lingua, all’italiano s’affiancano spesso versi o passaggi in lingue diverse: provenzale antico, francese, spagnolo, tedesco e ovviamente inglese (al riguardo non si può non pensare ancora alla poesia di papà Pound). Eppure, anche qui, la direzione contraria non sembra meno propizia, e meno auspicata: «Io dall’alto li guardo/ questi uomini che vanno/ dipingendo alberi,/ ma ormai non potrei/ seguirne le orme/ tanto le mie radici vanno/ verso il centro del cuore/ cercando la sorgente viva».