Corriere della Sera, 20 agosto 2024
Giuni Russo raccontata da Maria Antonietta Sisini
«Ogni tanto apro un cassetto dentro il quale c’è un cellulare. Quasi sempre spento. A volte lo abbandono sopra un libro, su un tavolino. Quando esco lo lascio a casa. In generale non lo uso». Parola di Maria Antonietta Sisini, amica, collega e tutto il resto di Giuseppa Romeo, in arte Giuni Russo, scomparsa prematuramente vent’anni fa a 51 anni, artista dalla voce speciale spesso accostata a quella di Mina. Il cellulare silente è quello di Giuni. Poliedrica come Mina: dalla canzonetta alla lirica.
Cantò per l’ultima volta in chiesa, al proprio funerale, Giuni Russo, morta a Milano nel 2004 dopo una lunga malattia. Nella chiesa del Monastero delle Carmelitane scalze, verso la fine della cerimonia funebre, risuonarono le note registrate della canzone La sua figura ispirata a Santa Teresa d’Avila, alla fine applaudita a lungo dalla folla che gremiva la chiesa. «Un’artista che attraverso l’arte aveva scoperto la fede mettendo la voce al servizio di quest’ultima» aveva osservato il celebrante, don Filippo, nell’omelia, aggiungendo: «Nei suoi occhi quando cantava si vedeva una luce particolare, quella della speranza». Nel corso della commovente cerimonia le Carmelitane Scalze, protette dalle grate della clausura, avevano dispensato canti celestiali per quella che, negli ultimi anni, era diventata una loro sorella. Vent’anni fa all’ultimo saluto a Giuni Russo c’era soprattutto gente comune, fan, amici, qualche foggia eccentrica di quel mondo che molto amava l’artista. Confusi fra gli ammiratori Mario Lavezzi, Christian, Ivan Cattaneo, Shel Shapiro, Iva Zanicchi e Aida Cooper. Latitanti i vertici del mondo discografico. Dopo la cerimonia il feretro partì alla volta del Cimitero Maggiore. Essere sepolta tra le Carmelitane Scalze è stato l’ultimo desiderio di Giuni, che nel convento di via Colonna aveva trovato negli ultimi anni pace, conforto e consolazione. Il suo cammino spirituale era iniziato una decina d’anni prima anche a seguito delle numerose delusioni professionali.
Maria Antonietta Sisini, come la sua vita si è incrociata con quella di Giuseppa Romeo?
«Vengo da una famiglia di musicisti. Papà era un contadino che amava il folklore, da bambina lo vedevo armeggiare con la chitarra. Mamma non approvava. A 11 anni ci siamo trasferiti a Milano. Finite le medie mi negò il permesso di accedere al conservatorio. Quindi mi iscrisse al Carlo Tenca, magistrali. Io cercavo un complesso con cui suonare e cantare. Nel 1968 suonavo la domenica pomeriggio al dancing Diomede. Ed è lì che ho incontrato Giuni Russo. Lei era venuta con amici a ballare. Aveva già una certa notorietà (Castrocaro, Sanremo). A un certo punto chiesero a Giuni di cantare. Lei salì sul palco, le passai la chitarra e intonò Chain of fools di Aretha Franklin... È stato lì il colpo di fulmine. In confronto a lei io ero una schiappa».
Amore e lavoro vi hanno unito?
«Il lavoro ci appassionava. E mi fermo qui».
Chi era veramente Giuni Russo?
«Una personalità a tutto tondo, un’artista preparata che ha dedicato la sua vita al canto. Coltivando il talento. Da bambina lei andava dal maestro di canto. Ha coltivato da sempre questa passione. Era professionista. Ma libera. Molto attenta anche ai particolari ma soprattutto – l’ho capito col senno del poi – era libera. Nell’ambiente dicevano che lei aveva un caratteraccio, che non era obbediente, che non faceva quello che le veniva indicato da produttori o discografici. Lei voleva fare quello che si era prefissata fin da bambina, aveva un suo piano ed è riuscita a fare quello che lei amava. Era stanca della infinita gavetta, dei tanti pellegrinaggi che terminavano con un nulla di fatto».
Qualità e difetti?
«Qualità: precisione e senso del dovere, onestà. Diceva “Ti chiamo fra tre mesi... Per dirti o darti qualcosa”. E così faceva. Difetti? Si sottovalutava».
Quale è stato il ruolo di Battiato?
«Fondamentale. Giuni aveva deciso di accettare un posto di corista in un teatro lirico. Ma nel frattempo Cristiano Malgioglio ci chiese di scrivere una canzone per Amanda Lear. E così nello studio di Alberto Radius conoscemmo, oltre a Radius, Franco Battiato e Giusto Pio. Radius si innamorò subito della sua voce. E della canzone Ho fatto l’amore con me. Radius disse: voglio che questa voce pazzesca sia conosciuta. Voglio produrre Giuni Russo. Ma lei non accettò. Radius, come detto, organizzò un incontro nel suo studio con Battiato e Giusto Pio. Il faccia a faccia si rivelò proficuo. Così qualche tempo dopo Battiato ci telefonò: “venite a casa mia a Milano”. Cominciammo a collaborare. Noi non avevamo rapporti con nessuna casa discografica. Giuni ed io eravamo incapaci di creare testi, solo musica. Così dalla nostra collaborazione nacque l’album Energie nel 1981. Battiato iniziò a girare le case discografiche raccogliendo dei no. Poi finalmente arrivò il contratto con la Cgd. E due anni dopo anche lei, Fegiz, si cimentò paroliere nei brani Una sera molto strana e L’Oracolo di Delfi per l’album Vox del 1983».
Geniale? Incompresa?
«A volte incompresa. Agli inizi degli anni 80 Caterina Caselli che era la nostra discografica, non capiva Giuni Russo, la sua voglia di sperimentare e di evolvere, la Caselli chiedeva sempre brani come Un’estate al mare. Ma a Sanremo 2003, dove Giuni, già molto malata, partecipò con Morirò d’amore, Caterina ci venne a trovare in hotel, e durante questo incontro molto intenso disse: “Ti chiedo perdono di non averti mai capito”. Una specie di confessione che le fa onore. Tutte e tre eravamo in lacrime».
Il rapporto con la fede?
«Le nostre famiglie erano molto religiose. Cristiane praticanti, poi crescendo anch’io ho perso parte dell’innocenza. Giuni non si accontentava dei testi qualsiasi. Andavamo in monastero a fare gli esercizi spirituali. Lì fu folgorata da un libro su Santa Teresa d’Avila. Lei si innamorò di questa donna e diventò una vera passione».
Grandi incontri?
«Due. Uno con Aretha Franklin nel suo camerino e poi quelli con Battiato, una fratellanza durata una vita».
I rapporti con la Sardegna?
«Ha vissuto tre quarti della sua vita in Sardegna. Per la quale aveva un amore incondizionato. Guardava la carta geografica quando faceva le elementari a Palermo. C’era una unica carta geografica. Lei fissava la Sardegna e diceva “guarda come è bella, un giorno ci andrò”. In Sardegna si sentiva a casa sua, il brano Alghero spopolò e finì in classifica».
Litigavate?
«Uh, tantissimo, ma erano litigi professionali. Se la musica leggera non ci vuole proviamo con la classica, dicevo io. E fu così che nacque l’idea del disco A Casa di Ida Rubinstein (1988). Ci abbiamo lavorato per tre anni. Le case discografiche non erano interessate: ma cosa ci porti? Ci giudicavano un po’ matte, non è pop non è classica, tornavamo a casa scornate. Un giorno Battiato che si era appena trasferito a Milo riascolta le canzoni e si entusiasma. Noi: nessuno le vuole. E lui: che problema c’è, le pubblico io con la mia etichetta discografica l’Ottava. C’era tanto fra noi, un’intesa che andava al di là del lavoro. Custodisco tutto questo nel mio cuore. A Battiato piacevano le cose strambe, inusuali. Mi sorprese il successo come quello di Mediterranea o Alghero».
Eredità spirituale?
«Mamma mia. Non so rispondere. Ho tutto nel mio cuore. Mi emoziono. Una eredità immane vivere per 36 anni con Giuni. Il 14 settembre a Roma alla Nuvola di Fuksas ci sarà un tributo a 20 anni dalla sua prematura scomparsa».
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