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 2024  agosto 20 Martedì calendario

L’israeliano Louis Har racconta i 129 giorni di prigionia

La notte del 12 febbraio quando un uomo gli ha stretto il braccio e gli ha detto in ebraico «Seguimi, stai tranquillo, ti riporto a casa, siamo soldati», Louis Har ha pensato che doveva essere un sogno o un macabro scherzo.
Era la sua 129esima notte a Gaza, l’ultima. L’uomo che gli aveva stretto il braccio era davvero un soldato e quella che l’aveva salvato era un’operazione speciale dell’esercito israeliano per portare in salvo, a casa, lui e Fernando Simon Marman.
Era l’1.49 del mattino, e pochi minuti prima che i soldati entrassero al secondo piano della casa di Rafah, nel sud della Striscia, dove erano tenuti in ostaggio, Louis aveva pensato di non sopravvivere. La deflagrazione dei bombardamenti era drammaticamente vicina. Non era la prima ma era la più prossima che avesse vissuto nei mesi del suo rapimento. Non poteva sapere che quelle bombe servivano a coprire l’operazione di terra.
C’è un video, sul sito dell’esercito israeliano, che mostra quegli attimi. Una scritta verde evidenzia il luogo in cui erano segregati i due ostaggi, poi nel grigio dell’immagine dall’alto si vedono le bombe sganciate e l’impatto col suolo.
L’ondata di attacchi aerei che ha anticipato l’incursione che ha liberato Louis e Fernando è durata un’ora, secondo le fonti palestinesi in quelle ore sono morte quasi cento persone, altre decine sono state ferite. La maggior parte, ha detto Marwan al-Hams, il direttore dell’ospedale Abu Youssef al-Najjar, erano donne e bambini. Dopo la liberazione il portavoce dell’esercito israeliano Daniel Hagari disse che i membri della squadra di soccorso avevano protetto gli ostaggi con i loro corpi perché era scoppiata una dura battaglia attorno a loro in più punti contemporaneamente con gli uomini di Hamas e Hagari ha aggiunto che, circa un minuto dopo, le forze israeliane hanno condotto attacchi aerei «per consentire alla forza di interrompere il contatto e portare fuori gli ostaggi in sicurezza».
Le immagini successive all’operazione mostrano l’ospedale Sheba, al centro di Israele, dove Louis e Fernando, magri, pallidi e impauriti, dopo mesi riabbracciano i loro cari, le persone amate che piangono di gioia sulle loro spalle. E l’ospedale Marwan al-Hams, a Gaza, dove si contavano le vittime degli attacchi da terra, da mare e da cielo di quella notte.
Il rapimento
Louis Har è un uomo sportivo di 71 anni, ha doppio passaporto israeliano e argentino, il volto è amichevole, così come il carattere. Gioviale, generoso. Anche durante la conversazione con La Stampa lo è. Sebbene sia faticoso per lui rievocare i momenti del suo rapimento e della sua prigionia, non risparmia dettagli. Non vuole andare avanti dimenticando, ma aiutando gli altri a ricordare.
Prima del 7 ottobre la sua vita si divideva tra il suo lavoro da contabile e le sue passioni, il teatro e il ballo, che condivideva con la compagna Clara. Vivevano dividendosi tra due kibbutz, Urim, a circa sette chilometri dal confine con Gaza, cioè casa di Louis e quello di Nir Yitzhak, tre, quattro chilometri dal confine e casa di Clara, dove erano la mattina del 7 ottobre.
Una mattina come un’altra. La sveglia, il caffè per lui, il tè per lei, una torta all’arancia e la possibilità dei razzi da Gaza.
La possibilità è diventata realtà, ma non come le volte precedenti. Quelle a cui si erano abituati, i razzi, qualche minuto nella stanza protetta e poi di nuovo alla vita del piano di sopra. No, quella mattina un gruppo di miliziani di Hamas è entrato in casa loro, li ha trascinati fuori con la forza, li ha caricati su un veicolo e li ha portati a Gaza. Della breve strada verso la Striscia, Louis ricorda i cadaveri lungo le strade, le case in fiamme, gruppi di civili gazawi che erano entrati in Israele e gridavano e i miliziani più giovani che sparavano in aria urlando «Allah è grande». Poi sono entrati a Gaza, tutti e cinque i membri della sua famiglia facevano ormai parte della lista degli oltre 250 ostaggi rapiti dai gruppi armati della Striscia.
Il ricordo successivo è quello di un tunnel che non misura in metri o chilometri ma ore. Tre ore scalzo nel buio dei cunicoli sotto Gaza «c’erano gruppi di uomini che si davano il cambio ad alcune intersezioni, un gruppo ci lasciava ad un altro, si aiutavano con le mappe per portarci a destinazione. Ricordo di aver visto delle stanze illuminate, dentro uomini armati e computer». La prima destinazione era una casa di Khan Younis dove sarebbero rimasti fino al 28 novembre, il primo e unico accordo di cessate il fuoco per la liberazione degli ostaggi. Clara, sua sorella e sua nipote sono uscite, lui e Fernando no. Hanno sperato per qualche giorno che sarebbero stati i prossimi, poi hanno smesso di pensarci, convinti che sarebbero morti a Rafah, dove erano stati spostati e dove avrebbero trascorso i successivi 76 giorni.
La detenzione
Louis racconta che i rapitori non li hanno mai picchiati. La sua principale preoccupazione, finché le donne sono state con loro, era un miliziano che indicando la nipote diceva che l’avrebbe trattenuta con sé e costretta a sposarlo. Louis le ha detto di non parlare, non guardarlo, non interagire mai. Ha usato, per convivere coi rapitori e per alleviare la pena dei suoi amati, le stesse strategie che usava a casa. Cucinare e raccontare storie. Quando c’era cibo, Louis preparava da mangiare per ostaggi e rapitori. Quando i suoi familiari erano sopraffatti dalla paura di morire, raccontava loro un futuro immaginato, le prossime vacanze, l’odore di un pranzo a casa. Il ritorno in Argentina da cui emigrò nel 1971.
Distingue, Louis, tra il miliziano proprietario di casa e gli altri. Con il primo aveva stretto una sorta di patto di fiducia. Poteva parlare con lui, non ha mai sentito da parte sua l’intenzione di ucciderlo ma sapeva che sebbene non fosse aggressivo, se avesse ricevuto l’ordine di giustiziarlo l’avrebbe fatto in un secondo. Gli altri, invece, agivano quotidianamente una guerra psicologica. «Mi dicevano che anche se fossimo tornati a casa, un giorno, ci avrebbero scovato di nuovo, tra due, tre anni. Che Israele ci aveva dimenticato, che il nostro esercito combattendo a Gaza stava uccidendo gli ostaggi. Ci avevano detto dei tre ostaggi uccisi dall’Idf, ci impedivano di parlare per ore perché se i droni che sorvolavano Gaza avessero percepito delle voci avrebbero mandato l’aviazione a bombardare l’edificio e così saremmo morti sotto il nostro stesso fuoco».
Ogni volta che veniva abbattuto un edificio intorno a loro, i rapitori entravano nella stanza e dicevano loro che in quelle case c’erano molti ostaggi e erano tutti morti. Louis cercava di sostenere Fernando, gli diceva di non credere a Hamas, che erano tutte menzogne. Ma alle bombe doveva credere per forza, erano attorno a lui. Ricorda il colpo di quelle distanti e poi il pavimento che si muoveva e le mura incrinate per quelle vicine, i vetri rotti e il pensiero ricorrente: domani non vedrò la luce del giorno. «Era la nostra più grande paura, sentivamo i nostri aerei sopra la testa e temevano che avrebbero bombardato il nostro edificio».
La voce si rompe mentre lo dice, perché Louis oltre che contabile e attore e ballerino, è stato anche un soldato. Non poteva pensare di morire sotto le bombe dell’esercito per cui aveva servito.
La libertà
Louis non è ancora tornato nel suo kibbutz, di quello di Clara restano macerie, a casa sua è troppo presto. Trascorre molto tempo nella sede del Forum delle famiglie degli ostaggi, a Tel Aviv, dove ha avuto sede l’incontro con La Stampa. Indica sui poster alle pareti i suoi vicini che sono morti, gli ostaggi che conosce e che sono ancora in cattività, poi indica i volti che recano la scritta “Home”, come il suo: sono i rilasciati e i liberati.
Per gli altri il tempo scorre. Si vede dalle loro età barrate. Significa che hanno compiuto gli anni in prigionia, significa che i mesi passano senza che si raggiunga un accordo, mentre a Gaza, ogni giorno, si muore.
Cosa significhi oggi la parola libertà è una domanda che tende a non porsi. A Gaza cercava di sopravvivere alla paura della notte, fuori Gaza prova a sopravvivere ai ricordi. Prima del 7 ottobre credeva nella convivenza, oggi non ci crede più. Le ultime domande sono le uniche che gli alterano i lineamenti del volto. Quando pensa alle persone uccise dai bombardamenti la notte della sua liberazione dice: erano tutti di Hamas, meritavano di morire. Alla domanda: pensa che esistano persone innocenti a Gaza? Non ha esitazione. «No – dice -. Non esistono». È cambiato tutto, per lui e per il paese. Lo dice con la stessa convinzione con cui ripete, fino alla fine, che ora però la guerra va fermata per riportare tutti a casa. Immediatamente. —