Il Messaggero, 20 agosto 2024
Intervista a Giuseppe Giannini
Sessant’anni, oggi. Auguri a Peppe Giannini, il principe (soprannome datogli da Chierico) che ha incantato la Roma per più di un decennio, con 318 presenze e 49 gol, quando i “10” erano Platini, Maradona, Matthäus. Oggi è un ragazzo di 60 anni, timido, un po’ permaloso. Capitano tormentato, figlio di una Roma a metà strada tra quella di Falcao e quella di Totti. Lei nel posto giusto ma nel momento sbagliato, no?«In ritardo sulla prima Roma, troppo in anticipo sulla seconda, ma sono orgoglioso: nella mia vita ho fatto di tutto, però la prima parte della carriera è stata indimenticabile».Sessant’anni: pochi, tanti?«Porca miseria, non ci penso...».I “Migliori anni...” (la canzone di Renato Zero, una delle preferite di Peppe) erano altri.«Quelli in cui giocavo: giovane, capelli lunghi. Ero il capitano della Roma, da sempre il mio biglietto da visita».E adesso?«Faccio il nonno. Ero il principe, venivo dopo il re Falcao, oggi io sono un re per mia nipote Nina. Non vivo di nostalgia».Come festeggerà i 60?«In Sardegna, ho aperto un ristorante in Costa Smeralda cinque anni fa, lo gestisce mia figlia. Stiamo in famiglia, con qualche amico e stop».Nessuno del calcio?«No, nessun ex compagno, nessun dirigente, niente. Da queste parti c’è Urbano Cairo, magari farà un salto lui».Parlava di capelli lunghi, era un belloccio. Ma è vero che non si sa vedere senza quella chioma fluente e che oggi non lo riconosce più nessuno?«No, figuriamoci. Se avessi avuto bisogno di quello sarei andato in Turchia e con cinquemila euro, me li sarei fatti riattaccare. Fa strano essere senza capelli, ma non è un problema, lo garantisco».È soddisfatto della carriera?«È mancata qualche vittoria importante, la gloria personale. L’ho solo sfiorata. Per il calciatore che sono stato, per essermi confrontato con grandi campioni, forse me la sarei meritata. Ci voleva una consacrazione. Non dovevo chiudere con tre Coppe Italia, più una Supercoppa e una Coppa in Austria».Metta nell’ordine le sue grandi delusioni.«Roma-Lecce, 86, eravamo a un passo dallo scudetto dopo una rincorsa esaltante sulla Juve; poi la semifinale mondiale persa a Napoli contro l’Argentina nel 90 e infine la notte contro lo Slavia Praga, la mia ultima con la Roma. C’è anche Roma-Torino, finale di Coppa Italia del 93, ma mi consolo con il fatto di averlo vinto quel trofeo».La partita con lo Slavia l’ha segnata: cosa fece quella notte, ricorda?«Finì tutto nello spogliatoio, con le parole di Mazzone che, davanti a tutti, mi ha elogiato. Era la fine della mia avventura nella Roma, è stata una serata magica rovinata da un gol stupido nel finale, e Carletto, davanti ai compagni disse che era orgoglioso di me e che avrei potuto giocare ancora, con una gamba sola. «Me rompono er ca.. che non dovevo farti giocare, e invece...», disse. Parole che per me sono state come un successo».Chi non voleva farla giocare?«Non lo ha mai detto, ma penso si riferisse al presidente Sensi».Rapporto mai decollato con lui.«Quando ha acquistato la Roma, aveva un socio, Mezzaroma. Sensi pensava che io stessi più dalla parte sua, era prevenuto. Ma sbagliava. Poi abbiamo ricucito, mi ha anche chiamato per tornare come dirigente».E lei?«Mi fece parlare con Franco Baldini, che mi ricordava il mio legame con Fioranelli e Morabito perché all’epoca cercavo di fare il procuratore e avevo rapporti con loro. Un modo per farmi capire che non si fidava. Quella battuta mi diede molto fastidio, mi alzai e me ne andai. Io dovevo subito riferire tutto al presidente, invece il mio orgoglio mi ha spinto verso casa. Sbagliai. Dovevo tapparmi il naso e il mio futuro nella Roma avrebbe preso un’altra piega e oggi forse sarei a Trigoria con Bruno Conti».Come è arrivata la Roma?«In famiglia, essendo dei Castelli, c’era qualche laziale, ma a me colpì uno scudetto della Roma, in ceramica, che mio nonno teneva attaccato alla parete. E da lì, la passione per quei colori, ero innamorato di quello scudetto. Il destino ha voluto che, dopo un provino al Milan, mi prese proprio la Roma. Volevo l’Olimpico, la fascia, è arrivato tutto».Si diceva che fosse un raccomandato per via del suo papà, Gildo, che era un dirigente di calcio, legato alla Roma. «Le assicuro che non mi ci sono mai sentito. Le ho passate di tutti i colori e ho sempre reagito da solo alle avversità, compresa quella dell’esordio in A contro il Cesena, quando procurai la rete degli avversari. Tre giorni dopo giocai il derby con le giovanili: feci due gol e tornai subito in prima squadra».La fascia quando arrivò?«Quando Bruno Conti prese sei giornate di squalifica dopo gli insulti a Lanese in un Ascoli-Roma. Liedholm comunicò che sarei stato io il capitano».Ha vissuto più noie o privilegi da capitano della Roma?«Dietro a quel pezzo di stoffa c’è una storia, una città, le sue tradizioni, le passioni di un popolo. La fascia è stata sul braccio di gente come Losi, Di Bartolomei e tanti altri. Sì, tante responsabilità, ma sempre un piacere». Molti ricordano un suo expoit a Foggia: non era un gol scudetto, ma per non rischiare la retrocessione.«Era un momentaccio, io venivo pure dal rigore sbagliato nel derby. Quella rete mise le cose a posto per un po’».Cosa non andò con Ottavio Bianchi?«Eravamo a Bergamo, sul pullman, mi è scappata una battutaccia contro i bergamaschi, e lui, che è di Brescia, se l’è presa molto e da quel momento è sempre stato freddo con me. Parlava bene di tutti, mai di me. Una volta a Genova, contro la Samp, non mi fece giocare. Chiesi spiegazioni e mi respinse, mi snobbava, «ho altre cose a cui pensare», mi disse. Un’altra volta, durante un Anderlecth-Roma di Coppa Uefa, nel 91, stavo facendo una partita bellissima, un assist dietro l’altro, ma lui mi voleva sostituire. Lo mandai a quel paese e mi lascio in campo. A fine partita, quando ci aspettava nello spogliatoio per congratularsi, io ritirai la mano e lui si infuriò. Da lì abbiamo chiuso i rapporti, alla fine, la fascia me la tolse lui e la diede a Voeller».Prova invidia per Totti e De Rossi?«No, sono contento per Daniele, lui conosce le mura di Trigoria e basta quello per sapere cosa sia il meglio da fare, per questo è l’uomo giusto per la Roma. La storia della mancanza d’esperienza è una fesseria. Quando conosci a memoria quell’ambiente hai una marcia in più». Il post calcio di Totti è un po’ come il suo: fuori dalla Roma. «A me dicevano sempre «tu sei Giannini, non posso mica darti gli allievi nazionali». Con questa storia sono sempre rimasto fuori, e per lui è un po’ cosi. Tutte scuse».Il problema è che lei non si è mai saputo vendere.«Si, probabile. Sono sempre stato cosi, lo ha detto anche Pellegrini in una intervista a Il Messaggero: non c’è bisogno di fare il ruffiano. Io ho sempre fatto quello che sentivo, non studiavo a tavolino i miei comportamenti. Andavo a braccio».Il calcio resta la sua vita.«Ho fatto esperienze in categorie minori, Gallipoli è stata una perla, sono stato in Libano, l’ho trovato interessante. In questi anni mi sono occupato dei giovani da ds del Monterosi, abbiamo formato tre squadre nazionali. Sto fondando un’Accademia a Marino. I ragazzi bravi, e italiani, ci sono in giro, non date retta a fesserie». A chi ha dovuto dire grazie.«Se c’è una persona a cui sono legato e la sua scomparsa è stata una botta enorme per me e per il mio futuro, è Dino Viola. Lui mi ha sempre garantito che sarei rimasto a vita nella Roma e ci credeva».Eppure Viola la stava per cedere alla Juve, no?«Mi voleva Boniperti, il presidente non era convinto e nemmeno io. Non se ne fece nulla». Chi riporteresti in vita«I miei genitori. Oggi sarebbero orgogliosi di me».