Il Messaggero, 20 agosto 2024
Intervista a Silvia Avallone
Quarantenne, fieramente originaria di Biella, la scrittrice Silvia Avallone insegue la libertà e riflette sull’avvenire, tornando con i ricordi all’estate del 2020, subito dopo il primo lockdown. La raggiungiamo al telefono mentre è già immersa nel verde e nel silenzio della Valle Cervo, sui monti di Biella, nei luoghi della sua infanzia in cui appena può cerca requie, «lontano dalla gente, dai clacson, dal caos della città, questo è il mio posto del cuore e ho voluto portarci anche le mie figlie per un passaggio generazionale». Ma anche questa estate lascerà il segno, cominciata in modo trionfale, vincendo con il premio Viareggio-Rèpaci, perché citando la motivazione della giuria – «scandaglia nelle viscere della colpa senza negarla, né giustificarla. Un romanzo che parla di amore e della strada sterrata del futuro. Una storia di condanna e di salvezza, ma soprattutto una riflessione morale e civile, che ci riguarda tutti». Il Viareggio-Rèpaci rimanda alla necessaria redenzione dopo la caduta. Ne è felice?«Una gioia assoluta. Sto vivendo un periodo felice e incasinato senza un attimo di tregua, compresa la seconda maternità. E mi voglio godere tutto, senza rinunciare a nessuna emozione. Ovviamente sono molto onorata per il premio vinto e la sua prestigiosa storia, lo considero un traguardo per tutto il lavoro svolto, e anche un riconoscimento per le persone che ho incontrato nel carcere minorile di Bologna, che si è rivelato un luogo cruciale per dar vita alla protagonista del libro, Emilia».Varcare quelle mura, entrando nei meandri del carcere minorile, le ha insegnato qualcosa? «Sì. Abitando lì vicino, mi sono spesso domandata cosa accadesse al di là delle sue mura. Potervi entrare grazie ai laboratori, incontrare i detenuti e chi lavora a stretto contatto con loro, è stato un regalo che ho fatto prima di tutto a me stessa. Dall’incontro con quei ragazzi ho imparato la necessità di dover credere necessariamente al futuro, alla possibilità di ripartire da zero una volta tornati liberi».Torniamo indietro a quale estate?«Ritorno a Sassaia, all’estate del 2020, a quel piccolo borgo in Piemonte che è stato il luogo della mia rinascita».Cosa avvenne di preciso?«Avevo vissuto il primo lockdown a Bologna, la mia fonte di resistenza era stata una finestra affacciata su un albero di ciliegio». Fortunata. C’era chi non aveva neanche quello.«Certo. Appena ho potuto, però, ho lasciato la città, sono tornata nella mia valle e seguendo indicazioni di massima ho preso una mulattiera. A piedi e sotto il sole. Fatica e muscoli che bruciavano. Voglia di scoperta e polmoni finalmente spalancati. E poi, tutta quella bellezza, senza una macchina, senza il traffico, la valle intera solo per i miei occhi».E poi cos’è successo?«In quel momento ho ritrovato un pezzo di me stessa. Lì è nata Emilia, la protagonista di Cuore Nero. Se lì io mi ero ritrovata dopo il lockdown, ho immaginato cosa sarebbe potuto accadere in quel posto a una donna con una colpa addosso e quindici anni passati dietro le sbarre. Ecco perché Sassaia è un luogo simbolico per me».Simbolico, addirittura. Come mai?«Perché in quel borgo dimenticato e ritrovato, con soli tre abitanti, ho riscoperto un sentimento di libertà primordiale, davvero basico. Il lockdown, quello stare chiusi in casa, ha segnato tutti noi, al punto che alcune parole sono diventate tabù e ancora oggi fatichiamo a rivivere i momenti di paura collettiva. A Sassaia ho riscoperto le stradine, i sentieri, la natura. Sassaia è diventato un luogo di consapevolezza per me, un riposo necessario che sconfessa il dogma della performance e della ricchezza di cui sembrano intrisi i nostri tempi».Silvia, lei in cosa crede? «Credo che la vita serva ad amare e conoscere, citando Pasolini. Ci servono un lavoro, una casa e uno stipendio dignitoso, ovviamente, ma vivere per inseguire traguardi che ci sfuggono e ci spingono ad accumulare è un concetto che non mi appartiene». E a lei cosa le serve per essere felice? «Un borgo. Il mio tempo. La mia famiglia. Il contatto con la natura. E i libri».Dove passerà questa estate?«Proprio a Valle Cervo, dove si trova Sassaia, vicino a Biella. Da giovane sono andata via dalla provincia, ho vissuto e visto il mondo com’era giusto, ma poterci tornare oggi, da donna adulta e madre, in compagnia delle mie due bimbe, mi commuove».E il futuro, invece, la spaventa?«Mi spaventa, ma vorrei che ricominciassimo a scommettere seriamente sul futuro. Mi preoccupa l’ingiustizia sociale di cui sono intrisi i nostri tempi: bisogna agire. Seppur non condivido alcuni metodi estremi di protesta dei gruppi ambientalisti, capisco bene l’ansia climatica, ed è davvero tempo di risvegliare le coscienze collettive».Ci tolga un dubbio: secondo lei ne siamo usciti migliori dalla pandemia?«No, non mi sembra proprio. E sa perché? Perché cambiare si può ma è faticoso e perché funzioni dobbiamo farlo insieme, senza egoismi.»Silvia, con la maternità è cambiato il suo punto di vista sull’avvenire?«Certamente mi angoscia quel futuro che attende le mie figlie, perché negarlo? Ma è un sentimento che provo anche da cittadina, perché la vita che viviamo oggi non è soltanto nostra. Credo che dobbiamo recuperare il senso della comunità, una cultura civile che ci aiuti ad affrontare l’avvenire. Ma non più soli e isolati, insieme finalmente».