19 agosto 2024
Biografia di Alain Delon
Alessandra Coppola per il Corriere
PARIGI Era un monumento nazionale, dice il presidente Emmanuel Macron, la Francia è in lutto. Musica di fisarmonica e mazzi di fiori sul cancello della villa della Loira: alle tre di ieri mattina si è spento a 88 anni Alain Delon, che aveva voluto «essere il migliore, il più bello, il più forte», confessava nella prefazione alla sua ultima biografia. E a modo suo c’era riuscito.
Alle otto i figli, eccezionalmente uniti, inviano all’agenzia France Presse un comunicato in ordine alfabetico: «Alain-Fabien, Anouchka, Anthony assieme a Loubo (il suo cane, ndr), informano con enorme dolore della scomparsa del proprio padre. Si è spento serenamente nella sua casa di Douchy, circondato dai suoi cari».
Morte annunciata e anche preparata, quella dell’attore. Indebolito da un ictus nel 2019, poi ancora un’emorragia celebrale, un’operazione, un lungo periodo di convalescenza e di riabilitazione in Svizzera. Infine un linfoma, e informazioni sempre più rade. Dal ritorno nella dimora di Douchy, 12 ettari di parco circondato da un’alta recinzione, emergono solo notizie di liti familiari, la denuncia per «circonvenzione d’incapace» alla «dama di compagnia» franco-giapponese, Hiromi Rollin. La tutela legale, il rapporto di un medico (filtrato sul quotidiano Le Parisien) che durante l’inchiesta visita Delon e lo trova debole, costretto quasi sempre su una sedia, incapace di camminare senza stampelle, un fil di voce. Con la quale avrebbe detto al dottore «Voglio morire, la vita è finita». «Sono storie che leggiamo sui giornali – aveva ridimensionato il figlio Anthony in un’intervista tv a Verissimo – poi tutti noi possiamo attraversare uno di quei momenti nella nostra vita e soprattutto in vecchiaia».
Delon ne aveva di quei momenti, nell’ultima stagione. «Il mio viaggio si è concluso», aveva detto appena prima della malattia alla cerimonia d’onore a Cannes: «Ho conosciuto talmente tante passioni, amori, successi e fallimenti; tanti scandali, vicende oscure, ricordi, appuntamenti mancati e incontri estemporanei, tanti alti e bassi…».
Ed è con questa contraddizione struggente che viene adesso ricordato. «Leone dallo sguardo d’acciaio», dice il celebre critico francese Gilles Jacob (che ha presieduto Cannes tra il 2001 e il 2014): «Una presenza al tempo stesso gentile e carnivora». La cantautrice, già première dame, Carla Bruni: «È raro trovare tanta grazia e tristezza mescolate in un essere umano». Il direttore artistico della mostra del cinema di Venezia, Alberto Barbera: «È riuscito là dove la maggior parte dei suoi colleghi falliscono: essere considerato l’uomo più bello del mondo e al contempo un attore straordinario, se ha abbandonato oggi le sue spoglie mortali è per ascendere al rango degli immortali di cui ci ricorderemo per sempre».
I funerali
Voleva essere sepolto con il cane Loubo,
che ha «firmato» l’annuncio funebre
Affranta l’attrice coetanea Brigitte Bardot: «Lascia un vuoto abissale che niente e nessuno sarà in grado di colmare». Con stima e tenerezza, Paul, il figlio dell’eterno amico rivale Belmondo: «Un giorno mi hai detto che ti mancava mio padre. Oggi sei tu che ci mancherai enormemente. Rip Alain».
Nel mezzo della crisi politica, anche la Francia istituzionale s’inchina, al di là della simpatia attribuita a Delon per le destre. Così il presidente Macron: «Ha interpretato ruoli leggendari che hanno fatto sognare il mondo. Prestando il suo volto indimenticabile per stravolgere le nostre vite. Melanconico, popolare, segreto, era più che una star: un monumento francese». L’ex presidente, Nicolas Sarkozy: «Il nostro Paese così veloce nel discutere e nel dividersi era unanime: Alain Delon superava tutti». La ministra della Cultura, Rachida Dati: «Lascia la Francia orfana della sua bella incarnazione sullo schermo». Il premier (dimissionario) Gabriel Attal: «Stella del cinema, stella popolare, visceralmente francese: una figura, un volto, gli occhi in cui si ritrovano tutti i nostri connazionali».
Sarà sepolto come indicato nelle sue ultime volontà nella tenuta di Douchy. Assieme al cane Loubo? Così aveva detto in un’intervista a Paris Match nel 2018: «Non lo lascerò solo, è il cane della fine della mia vita. Se morirò prima di lui, chiederò al veterinario di fargli un’iniezione affinché muoia tra le mie braccia». E il proposito aveva già scatenato la mobilitazione di un’associazione animalista.
L’ultima dichiarazione nero su bianco resta però quella della prefazione al libro di Denitza Bantcheva, Alain Delon, amori e ricordi: «Se dovessi morire domani, vorrei che si dicesse di me: ha sofferto spesso, a volte si è sbagliato, ma ha amato. È lui che ha vissuto e non un essere artificiale creato dal suo orgoglio e dalla sua noia».
***
Maurizio Porro per il Corriere
Bello e dannato, ribaldo e felino, sciupafemmine e ribelle, segnato da un’adolescenza difficile per i genitori divisi, Alain Delon è destinato ad essere quello sempre espulso da scuola, finché a 17 anni non si arruola fra i parà in Indocina. Così, virando a destra, inizia una vita spericolata, trovandosi spesso in coppia con Belmondo, star a lui complementare ma più ruvida, con cui ha diviso i gangsterismi marsigliesi di Borsalino.
Nato Scorpione l’8 novembre del ’35 a Sceaux (con tre nomi in più: Fabien, Maurice e Marcel), uscito vivo dall’assedio di Dien Bien Phu, Delon si avvia al cinema in Godot, ma il film che lo elegge sex symbol per la seduzione felina dello sguardo, è In pieno sole (Delitto fu aggiunto nella riedizione) di uno dei suoi registi di fiducia, René Clément. Aveva il potere magnetico dell’aspetto ma era anche dotato di grande sensibilità. Consuma l’amore con la Schneider nello psicogiallo La piscina di Deray poi a teatro, con Visconti, nell’incestuosa tragedia Peccato che sia una sgualdrina.
Il nobile regista lo consacra attore espressivo, sensibile, empatico in due capolavori amatissimi: Rocco e i suoi fratelli, sull’immigrazione interna dal Sud e Il Gattopardo in cui è il nipote prediletto Tancredi, dal romanzo che Visconti ha trasformato nel nostro Via col vento, con ballo finale stile Guèrmantes.
Delon prosegue la strada italo-francese: Che gioia vivere!, di Clément, commedia sugli anarchici, L’eclisse di Antonioni in cui tenta di amare la Vitti nella solitudine esistenziale di una vera eclisse.
Il divo funziona nei polar (Colpo grosso al casinò e Il clan dei siciliani col «nonno» Gabin), ma anche nel cinema d’autore, come Mr. Klein, del grande Losey. Delon non è solo un attore a rapida presa emotiva, come nei tre magnifici Melville Frank Costello faccia d’angelo, I senza nome, Notte sulla città, spie e «flic» su lividi paesaggi; offre le iniziali come griffe per variopinte attività. Si fidanza, flirta, si sposa, fra teatro e televisione, dallo show piumato al Bell’indifferente di Cocteau.
La carriera
Un sex symbol amato
dal cinema d’autore,
ma a Hollywood
non trovò successo
Tenta la carriera americana, ma gli va buca, meglio Scorpio con lo «zione» Lancaster. Lo ritroviamo con Malle nel trittico di Poe Tre passi nel delirio, nell’Evaso da Simenon, variazioni su temi poliziesco-esistenziali, è il nuovo Zorro con la Piccolo, mentre i fan esultano quando si mostra nudo, pur in acqua e da lontano, in L’uomo che uccideva a sangue freddo.
Una prima crisi è risolta col melò La prima notte di quiete di Zurlini, Rimini fuori stagione in cappotto di cammello stropicciato. Tenta la regia con esiti modesti, soffre e annuncia depressioni e suicidi, parla da omofobo: insomma invecchia male.
Nell’84, col poco riuscito Un amore di Swann, Delon spreca il fascino dark del barone di Charlus, né gli va meglio col Ritorno di Casanova, in senile nudità ispirata a Schnitzler.
Il tempo è inesorabile, ma lavora per Deray, Varda, Godard in doppio ruolo in Nouvelle vague. L’hanno abbandonato giovinezza e successo, chiude con Asterix alle Olimpiadi.
Ma ritenta col teatro: Variazioni enigmatiche di Schmitt, Le montagne russe nel ruolo – naturalmente con ampia facoltà di autobiografici ricordi – di un vecchio seduttore. Nel 2019 ultima festa popolare con la Palma di Cannes, dove dice piangendo: «La cosa difficile è stata durare, ora il difficile è partire».
***Laura Zangarini per il Corriere
Senza donne e senza attrici, amanti, amiche o senza la figlia Anouchka («Non ho mai detto “ti amo” a nessuna quanto a lei»), Alain Delon sarebbe stato, parole sue, solo «l’ombra dell’attore e dell’uomo» che era. La prima donna importante della sua vita è la madre Edith, che lo diede alla luce nel 1935, con la quale avrà però per tutta la vita un rapporto complicato. Negli anni 50 furono poi due giovani donne a metterlo sulla buona strada: la compagna Brigitte Auber gli presentò Michèle Cordoue, moglie del regista Yves Allégret: sarebbe diventata la sua amante. Cordue, ricorderà Delon, lo «imporrà a suo marito, che mi diede il mio primo ruolo in Godot (Quand la femme s’en mêle, 1957)». La più appassionata storia d’amore del divo è però con una giovane attrice nata a Vienna, arrivata in Francia per sbarazzarsi dell’etichetta di Sissi, Romy Schneider, conosciuta nel 1958 sul set de L’amante pura. L’anno successivo si fidanzano. Lui ha 23 anni, lei 20. Per cinque anni sono amanti «terribili» e «magnifici». Nel 1964, l’attore la lascia per Nathalie Delon, nome d’arte di Francine Canovas, che sposa (il suo unico matrimonio) e dalla quale ha un figlio, Anthony, nato lo stesso anno. Un legame indissolubile continuerà però a tenerlo unito a Romy Schneider: è al suo braccio che l’attrice si stringe, devastata, il giorno del funerale del figlio 14enne, David, nel 1981. Quando morirà a sua volta, un anno dopo, Alain Delon le scrive: «Ti amo, mia Puppelé (bambolina in tedesco, ndr)». L’attore, che preferiva il termine «incantatore» a quello di «seduttore» perché «la seduzione è fatta di calcolo, non di fascino», moltiplica le sue conquiste. Note le sue relazioni con la cantante Dalida, Maddly Bamy (futura compagna del cantante Jacques Brel) e Nico, icona dei Velvet Underground, il cui figlio Ari Boulogne (nato nel 1962 e morto nel 2023), assicurò per tutta la vita di essere figlio anche di Delon. Paternità tenacemente negata dal divo francese. Delon è stato legato anche a Mireille Darc dal 1968 al 1983. «Era la donna della mia vita – confidò quando Darc morì nel 2017 —. Senza di lei, posso andarmene anch’io». Dopo una storia con l’attrice Anne Parillaud, Delon ha vissuto, dalla fine degli anni 80 al 2001, con l’olandese Rosalie van Breemen. La coppia ha avuto due figli, Anouchka (la sua preferita, descritta come la «donna della sua vita») nel 1990, e Alain-Fabien, nel 1994. All’età di 80 anni, Delon si ritira nella sua proprietà a Douchy (Loiret) con Hiromi Rollin, presentata come «dama di compagnia», in realtà la sua ultima compagna. Fino a quando i figli dell’attore non la cacciano di casa nell’estate 2023, accusandola di abusi.
*** Concita De Gregorio per Rep@font-face {font-family:"Cambria Math”; panose-1:2 4 5 3 5 4 6 3 2 4; mso-font-charset:0; mso-generic-font-family:roman; mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:-536870145 1107305727 0 0 415 0;}@font-face {font-family:Calibri; panose-1:2 15 5 2 2 2 4 3 2 4; mso-font-charset:0; mso-generic-font-family:swiss; mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:-536859905 -1073732485 9 0 511 0;}@font-face {font-family:"Times New Roman (Corpo CS)”; panose-1:2 2 6 3 5 4 5 2 3 4; mso-font-alt:"Times New Roman”; mso-font-charset:0; mso-generic-font-family:roman; mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:-536859921 -1073711039 9 0 511 0;}p.MsoNormal, li.MsoNormal, div.MsoNormal {mso-style-unhide:no; mso-style-qformat:yes; mso-style-parent:"”; margin:0cm; margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:30.0pt; mso-bidi-font-size:12.0pt; font-family:"Times New Roman”,serif; mso-fareast-font-family:Calibri; mso-fareast-theme-font:minor-latin; mso-bidi-font-family:"Times New Roman (Corpo CS)”; mso-fareast-language:EN-US;}.MsoChpDefault {mso-style-type:export-only; mso-default-props:yes; font-size:30.0pt; mso-ansi-font-size:30.0pt; mso-fareast-font-family:Calibri; mso-fareast-theme-font:minor-latin; mso-bidi-font-family:"Times New Roman (Corpo CS)”; mso-fareast-language:EN-US;}div.WordSection1 {page:WordSection1;}
“Non ha fatto altro che figli, non lo so quanti, nemmeno lui lo sa”, diceva di Picasso Dora Maar. Una volta sono stata al funerale di un uomo molto ricco, molto potente e abbastanza bello, più da vecchio che da giovane, di una bellezza peculiare e assai riconoscibile. La chiesa era colma di suoi cloni. Ragazzi e ragazze di diverse età, bambini, giovani donne con figli per mano, tutti a lui identici. Lo sapeva? Non lo sapeva? Non posso dirlo ma certo, se mi metto nei panni delle madri, magari un biglietto una volta possono averglielo mandato. Per non dire del colpo d’occhio sugli eredi, quel sigillo. In quella come in altre transizioni familiari, quando di mezzo ci sono denari e diritti, gli anni successivi furono sanguinosi.
Una volta il vecchio Merloni mi indicò una società di Londra specializzata nella difesa delle aziende dagli eredi. A partire dalla seconda generazione li mette in condizione di non nuocere – non dilapidare, non farfallire la casa madre – con opportune compensazioni. Alla terza generazione gli eredi e chi rivendica posso arrivare ad essere una settantina, contando molteplici matrimoni per eredi e via così, esponenzialmente, tra i nipoti.
Dei figli di Alain Delon che nei prossimi anni si spartiranno i resti smembrando case e disseppellendo ori l’unico che mi abbia mai interessato era anche l’unico (diciamo l’unico di cui si sappia) che non ha riconosciuto: Ari Boulogne, morto a 60 anni l’anno scorso, figlio di Nico, Christa Paffgen, la spaziale artista che fu tra l’altro cantante di The Velvet Underground. Ari è passato da una clinica a un’altra, da una droga a un’altra, da una depressione maggiore a una peggiore. È stato cresciuto dalla madre di Delon, ha avuto una figlia, Blanche, che ha chiesto il test del Dna. Era l’unico, Ari, ad aver ereditato dal padre quel patrimonio indisponibile, indecifrabile, quel tesoro ineguagliabile che non ha nome: non esattamente la somiglianza, no, qualcos’altro. Quello che quando vedi gli altri figli dici sì, certo. Carucci. Però il padre.
Forse era una tristezza, o qualcosa così, nella ferocia.
***Tonia Mastrobuoni per Rep
Alain Delon si è spento a 88 anni a Douchy. Lo hanno reso noto ieri mattina i figli, Alain-Fabien, Anouchka e Anthony. E già nel pomeriggio l’ingresso della sua amatissima casa di campagna era pieno di fiori, biglietti, regali. I francesi, come ha sintetizzato ieri Emmanuel Macron, lo consideravano «un monumento». Uno dei loro attori più amati, più ammirati. E più controversi.IlFigaro, perfido, aveva scritto che “la parte migliore della sua recitazione è quando tace”. Ma ridurre la straordinaria carriera di Delon al suo magnetismo, alla sua bellezza imbronciata, ai suoi ombrosi silenzi, sarebbe ingiusto. È stato un attore formidabile, che si vantava di «vivere, non recitare» i suoi ruoli. Ma inevitabilmente, come era accaduto in vita, anche la sua morte divide. In tanti ne hanno ricordato la carriera straordinaria – è stato diretto dai più grandi registi europei, da Visconti a Losey, da Antonioni a Schloendorff a Clément – e ieri Brigitte Bardot ha scritto a mano una lettera per dire del «vuoto abissale» che lascia, e che «niente e nessuno sarà in grado di riempire».E poi ci sono le ombre, quelle che lo hanno accompagnato sempre. Le frasi omofobe, consegnate all’inserto del Figaro nel 2013; il celebre “me ne frego delle coppie gay ma sono contrario all’adozione dei bambini”. In tempi di Me-Too, Delon si sentiva un uomo fuori tempo, lo aveva ammesso apertamente. Aveva fatto insorgere la Francia quando, commentando la conquista dei diritti da parte della comunità lgbtqi, l’aveva bollato come un movimento che “banalizza ciò che è contro natura”. E quando Cannes gli aveva tributato la Palma d’oro alla carriera, nel 2019, una petizione online aveva raccolto nel giro di poche ore oltre ventimila firme chiedendo che si evitasse di celebrare un attore “razzista, omofobo e misogino”. In quell’uomo che aveva amato alcune delle donne più belle del secolo, da Romy Schneider a Nico a Mireille Darc, che aveva ammesso solo di recente di aver sofferto di depressione, sopravviveva un fiero orgoglio machista.In un’intervista aveva detto che “se machista vuol dire dare un ceffone, sì, sono stato machista, ma le ho anche prese, dalle donne”. Delon coltivava il suo fascino da canaglia, una volta disse che, se non avesse fatto l’attore, sarebbe stato “un gangster”.Delon se ne infischiò sempre delle critiche che attirava la sua amicizia più discussa, quella decennale con Jean-Marie Le Pen, il papa della destra antisemita e nazionalista francese. E la coltivò testardamente in un’epoca in cui il Front national era ancora ben lungi dall’essere “de-diabolizzato”dalla figlia. Nel 1987 Delon aveva rivelato di averlo conosciuto quando entrambi avevano partecipato alla guerra in Indocina, trent’anni prima. Fu “il periodo della mia vita che mi segnò di più, il più felice. Ero come un animale”, confessò della sua esperienza volontaria al fronte. E da allora, aveva aggiuntocandidamente, “sono rimasto un simpatizzante di Le Pen”.Negli ultimi tempi, stroncato da vari ictus, tradito da una salute sempre più precaria, Delon si era rifugiato nella sua villa a Douchy, e aveva espresso il desiderio di essere seppellito lì insieme ai suoi adorati cani. I tre figli, Alain Fabien, Anouchka e Anthony sono ferocemente divisi da anni, sul destino e l’eredità del padre. Delon non aveva mai nascosto la sua predilezione per la sua unica figlia femmina, cui aveva lasciato metà della sua eredità.E Anouchka aveva protestato contro la decisione della giustiziafrancese, ad aprile di quest’anno, di sottrargli la tutela legale suoi averi. Ma la figlia era già in lite da tempo con i due fratelli Anthony e Alain-Fabien per la responsabilità sulle cure del padre.Nella sua ultima intervista prima di ritirarsi del tutto a vita privata, Delon disse nel 2021 di crederein Dio e confessò di parlare spesso con la Madonna: “le devo tutto e scrivo sempre con l’inchiostro verde, perché lo faceva anche lei”. Quando Paris Match gli chiese se si aspettasse di andare all’inferno o in paradiso, Delon rispose “penso una via di mezzo. Sicuro, non sono mica scemi, lassù”.
***Intervista a Claudia Cardinale di Arianna Finos per Rep
Quel valzer di Angelica e Tancredi è entrato nell’immaginario cinematografico mondiale. All’epoca del Gattopardo, nel 1963, Claudia Cardinale aveva venticinque anni, Alain Delon ventotto. Insieme erano un’esplosione abbagliante di bellezza e talento. Oggi che il collega e l’amico di una vita è scomparso, per l’attrice, 86 anni, non è facile mettere insieme i pensieri e contenere il dolore. La raggiungiamo con l’aiuto della figlia amatissima, Claudia Squitieri,avuta dal regista Pasquale.
Nell’ultima intervista Alain Delon, ci diceva di lei: “Claudia mia sorella. L’ho conosciuta attraverso Luchino Visconti quando aveva appena diciannove anni. Arrivò sul set di “Rocco e i suoi fratelli” e ci tolse il fiato: era magnifica.
Siamo amici da sessant’anni”.
«Sì, eravamo fratelli, perché tutti e due eravamo figli di Luchino Visconti. Alain amava il nostro cinema e il nostro Paese. Ci aveva vissuto e diceva di aver imparato tanto qui».
“IlGattopardo” ha segnato entrambe le vostre carriere.
Lei ha scritto sui social: “Il ballo è finito. Tancredi è salito a ballare con le stelle. Per sempre tua.
Angelica”.
«Sono l’ultima rimasta di quell’insieme unico, perderlo è un grandissimo dolore. Alain era un punto fermo nella mia vita, un grande riferimento. Il ballo è finito, sì. Siamo stati tanto amici, ci siamo voluti bene, con tanto rispetto. E non ci siamo mai persi di vista, in tutti questi anni».
Cosa avevate in comune?
«Il fatto di non aver puntato sulla bellezza, che era un regalo. Alain sapeva che al cinema era arrivato grazie al fisico, ma poi aveva fatto conto sulla sua intelligenza. Siamo state due persone che hanno preso la carriera sul serio. Abbiamo sempre cercato di lavorare con professionalità assoluta. E abbiamo sempre studiato, attenti, rispettosi: non dello star system, che non ci ha mai interessato, ma del lavoro, che era per entrambi una grande passione. Questo ci rendeva simili».
***
Leonardo Coen per il FattoAdieu, Alain. Addio Mr. Klein. Addio Samurai. Addio Faccia d’angelo. Addio Rocco. Addio Tancredi, “salito a ballare con le stelle, per sempre tua, Angelica”, ha scritto su Instagram Claudia Cardinale, la meravigliosa Angelica Sedara del Gattopardo, figlia di un nuovo ricco che si sposerà con l’ex garibaldino Tancredi, nipote del principe di Salina, divenuto ufficiale sabaudo, simbolica unione del mondo sconfitto e del nuovo che avanza, in modo che “tutto cambi perché nulla cambi”. Alain Delon è morto domenica mattina, nella sua residenza di Douchy, a 150 chilometri da Parigi, dove scorre la Loira, “Alain Fabien, Anouchka, Anthony, oltre che il suo cane Loubo, hanno l’immensa pena di annunciare la dipartita del loro padre. Si è spento serenamente con accanto i figli e i familiari”. La nota che non volevi leggere.
Alain Delon era di quelli che nell’immaginario continuano a vivere. Incarnava la figura dell’attore per eccellenza, sex symbol alla francese, assieme all’amica Brigitte Bardot, altra icona d’Oltralpe, entrambi appassionati animalisti (Delon vuole essere sepolto accanto alle tombe dei cinquanta cani che ha avuto e ha salvato). Indicibilmente bello come il peccato. Che indossasse i panni dell’affascinante ufficiale piemontese o l’abito della festa di un immigrato. Che avesse addosso un trench grigio, o sulla testa calcasse un elegante Borsalino. Che fosse “flic” o “voyou”, pulotto o delinquente, che facesse uno del clan dei Siciliani o lo spietato killer scorpione come lui era in effetti essendo nato l’8 novembre del 1935, gli invidiavano lo sguardo di ghiaccio, l’aria cupa, enigmatica, distante: “Ha interpretato ruoli leggendari e ha fatto sognare il mondo, prestando il suo volto indimenticabile per stravolgere le nostre vite – ha scritto Macron – Malinconico, popolare, segreto, era più di una star, era un monumento francese”. Cosa, peraltro, che infastidiva non poco Alain: essere ridotto allo status di patrimonio nazionale, manco fosse la Tour Eiffel o la reggia di Versailles. Voleva essere apprezzato per il suo talento. E per come era riuscito a costruire, da cosciente artigiano di se stesso, un personaggio che andasse oltre lo schermo: “Ho vissuto tutti i miei ruoli rimanendo me stesso”. Magari, rimanendo prigioniero dell’immagine da lui creata: uomo di poche parole, ma quelle poche come pallottole. Finzione e realtà si fondono, vita pubblica e vita privata. Ha combattuto in Indocina. Frequenta gli ambienti della destra lepenista. Sbeffeggia Giscard e Chirac che nel 1984 si scannano, “querelle de gouzesses”, femminucce. Spara addosso al matrimonio per tutti, “contro natura”. Ma accetta nel 2002 il ruolo di Fabio Montale, poliziotto marsigliese creato da Jean-Claude Izzo, noto intellettuale di sinistra. I fans di Izzo protestano, però la serie tv ha un successo impressionante, 12,5 milioni di audience.
Poi, l’inevitabile declino. La vecchiaia è funestata da malattie, dalla solitudine, dalle liti familiari. Torna in pretura, come ai tempi dello scandalo Markovic, la guardia del corpo trovata stecchita nell’autunno del 1968. Storia dai contorni opachi, c’era di mezzo il milieu corso. L’ennesima disputa coi figli, la denuncia contro la sua assistente personale, lo inducono ad una drammatica confessione: “Voglio morire, la vita è finita” (lo rivelò Le Parisien, lo scorso gennaio).
Anche Rocco, lo straziante protagonista del film di Luchino Visconti, era costretto a misurarsi con la quotidiana vita agra dell’immigrato. È il 1960. Alain Delon è chiamato da Luchino Visconti. Dovrà interpretare Rocco, un immigrato lucano. Non è una parte facile. In una famiglia che si disgrega drammaticamente nell’affrontare passioni antiche e problemi moderni, Rocco sopporta miserie, illusioni e disperazione, ma non smette mai di sperare in una vita migliore. Forse la conquisterà con la boxe. Delon dimostrò di non essere soltanto “une belle figure”, uno stupendo volto che sapeva tanto di Pigalle e Saint-Germain-de-Prés: aveva incarnato il meridionale che ancora crede nei valori d’un tempo, approdato nella capitale del miracolo economico, sballottato dal maledetto destino dei poveri. Il film piacque alla gente delle periferie, nei cinema frequentati dagli immigrati, che si immedesimarono in Rocco e i suoi fratelli. Quasi sessant’anni dopo, il 19 maggio del 2019, gli consegnano la Palma d’Oro alla carriera. Davanti al pubblico di Cannes, in lacrime Delon ricorderà come Yves Allegret, il suo primo regista (Quand la femme s’en mêle, 1957), lo avesse consigliato ad essere se stesso: “Alain, non voglio che tu reciti. Voglio che tu parli come parli. Che tu guardi come guardi. Che ti muova come ti muovi”. Essere Alain Delon.
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Fulvia Caprara per la Stampa
Un violento corpo a corpo, da cui è emerso con molte evidenti cicatrici, ma anche con l’orgoglio di chi ha sempre lottato, prima per emergere, poi per stravincere, infine per fronteggiare la desolazione dell’età avanzata. Per Alain Delon, scomparso ieri a 88 anni, nella casa di Douchy, dove viveva gli ultimi, tormentati, round del match con il passare degli anni, l’esistenza è stata una lotta rabbiosa in cui perfino i sorrisi, le donne, la gloria, i figli, l’amore per gli animali, hanno avuto il retrogusto della rivalsa: «C’è una dose di aggressività nella mia natura, nasce da un principio basilare: attaccare per difendere se stessi». Anche la bellezza, viso angelico, guance scavate, sguardo glaciale, presenza virile capace di sciogliersi in quella dolcezza vagamente infantile perfetta per vincere ogni resistenza femminile, era un’arma a doppio taglio, seduttiva, ingannevole, pericolosa. Non poterne più disporre era un’infamia insopportabile, per questo, al Festival di Cannes, quando, nel 2019, aveva ricevuto la Palma d’onore, dalle mani della prediletta figlia Anouchka, le lacrime strazianti sapevano più di sconfitta che di nostalgia: «Come fate a guardarmi adesso – diceva rivolto al pubblico dopo il passaggio delle sequenze di Delitto in pieno sole – dopo avermi rivisto allora?».
Il primo a non accettarsi era lui. Stanco delle vittorie cinematografiche, delle memorie scintillanti, delle infinite conquiste, da Romy Schneider a Mireille Darc, da Nico a Dalida, da Michelle Cordoue a Francine Canovas (poi divenuta Nathalie Delon), da Dalila Di Lazzaro a Sylvia Kristel: «È un periodo difficile, davvero duro» confessava esibendo insolita modestia nel ricostruire le radici della carriera, a iniziare dal debutto in Godot: «Il regista Yves Allegret mi aveva detto “non recitare mai, guarda come guardi, parla come parli, ascolta come ascolti”. Ho sempre fatto così, non ho seguito corsi, arrivavo sui set, mi mettevano davanti alla macchina da presa e la osservavo, come si guarda una donna negli occhi. Mi è venuto tutto naturale, credo semplicemente di aver ricevuto un dono». Sulle prime forse anche un risarcimento, per l’infanzia difficile segnata dall’abbandono paterno, per l’adolescenza turbolenta, piena di punizioni ed espulsioni da vari collegi, per la scelta di partire volontario per l’Indocina, a 17 anni, sul fronte della guerra coloniale: «Mi sono sempre sentito ai margini, non ho mai fatto parte di nessun gruppo, associazione o altro, sono stato per conto mio, ma questo non mi ha impedito di costruire la mia carriera».
Lupo solitario, minaccioso, ma anche disperato come il Ripley di Delitto in pieno sole che, a tutti i costi, volle interpretare, diretto da René Clement, nel 1960, Delon si è imposto grazie al carisma duttile, alla doppiezza inafferrabile di un personaggio come Tancredi che Visconti gli affidò, nel Gattopardo, con l’intento di descrivere la corruzione nascente e il cinismo vorace della nuova classe sociale destinata ad affermarsi dopo il tracollo del’aristocrazia. La benda sull’occhio, la prima apparizione nello specchio dove il Principe Fabrizio di Salina (Burt Lancaster) si sta radendo, sono proprio il segno di un’ambiguità perniciosa, pronta a calpestare, con uguale disinvoltura, i sentimenti della cugina Concetta e gli ideali garibaldini.
La consacrazione, arrivata con la bacchetta magica di Visconti, prima in Rocco e i suoi fratelli dove Delon era, spiegava l’autore, «un personaggio dostoevskijano, sensibile e spiritualmente complesso» lo trasforma nell’eroe dei polar francesi stile Colpo grosso al Casinò di Henry Verneuil e Frank Costello faccia d’angelo di Jean-Pierre Melville in cui l’attore è un killer dolente, lo proietta sul ring della rivalità con Jean- Paul Belmondo, suo partner in Borsalino, complementare proprio perché diametralmente opposto nell’indole e nel modo di porsi: «Belmondo è un amico del pubblico, io no, ed è colpa mia, non sono un tipo semplice, è la mia natura». L’apice della prestanza fisica, raggiunto sul set della Piscina, nel ‘68, in coppia speculare con Romy Schneider, coincide con l’esplosione del caso Stefan Markovic, una brutta storia di droghe e ricatti che ebbe riflessi negativi sul percorso dell’attore, visto che la vittima era stata sua guardia del corpo, nonchè amico, segretario e talvolta controfigura.
La battaglia per l’affermazione non era mai vinta del tutto, Delon doveva sempre riguadagnare la fiducia dei suoi fan, anche allora, anche quando, nel ’69, era stato indicato in un sondaggio tra i dieci personaggi più amati dai francesi. L’esperienza di produttore, il film Madly Il piacere dell’uomo girato con Mireille Darc, celebrazione spensierata e vagamente autobiografica di un menage coniugale a tre, annunciano futuri appuntamenti, più impegnativi, con le prime rughe intorno allo sguardo perduto, nell’ Ultima notte di quiete di Valerio Zurlini, col personaggio sgradevole di Mr.Klein a di Joseph Losey, dove è una sorta di avvoltoio seducente e crudele nella Parigi occupata del 1942. Non a caso è proprio Mr. Klein, a suo tempo sottovalutato, il film riproposto al Festival di Cannes nella serata della Palma d’onore, quando Delon, la star esecrata dalla Nouvelle Vague («Mi hanno bandito e me ne sono fregato. Non ho mai girato con loro, solo con Godard nel 1990»), non riuscì a trattenere le lacrime, mostrando per la prima volta, come un grido d’aiuto, tutta la sua fragilità. Il tempo della protervia esibita era finito, restava l’ultimo conflitto, quella con la vecchiaia, impossibile da vincere. Perciò da ieri, insieme al vuoto che accompagna sempre la scomparsa di un attore grandioso, aleggia un leggero sollievo, quello che lui stesso deve aver provato, dopo aver invocato a lungo la fine, fiaccato da malattie e liti familiari, soprattutto consapevole di non essere com’era stato. E quindi, dal suo punto di vista, inutile, non più capace di donare piacere. —
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Nicoletta Verna per La StampaNella scena più iconica di Rocco e i suoi fratelli Alain Delon è sulle Terrazze del Duomo di Milano insieme ad Annie Girardot, e le sta dicendo che, pur amandola, la deve lasciare. Per tutta la sequenza Luchino Visconti evita attentamente di inquadrarlo frontalmente, riprendendolo sempre di spalle o di tre quarti. Solo in due scene vediamo finalmente il viso di Delon: quando dice a Nadia che solo lei può aiutare Simone (una frase dettata dalla buona fede, ma che carica la donna di una responsabilità impossibile da sopportare) e quando poi, più tardi, dichiara: «Non ci vedremo più, Nadia». In questi due primi piani la bellezza di Delon è quasi insopportabile, deturpata ad arte da un cerotto che ne mette in luce la dimensione morale (è stato picchiato ingiustamente) e l’assoluta perfezione, che fu cifra della ricerca estetica e stilistica di Visconti. Ed è, come non mai, una bellezza dolorosa. Dolorosa perché sfuggente: Delon si sta sottraendo all’amore, alla donna che ama, alla vita, in nome di un ideale impossibile. E dolorosa perché spietata: mentre lascia senza appello Nadia una lacrima gli riga il viso angelico, ma negli occhi si accende un barlume glaciale. Lei gli ripete per tre volte «Ti odio», e scappa: è confusa, persa fra le buone intenzioni e la crudeltà priva di speranza di Rocco.
Visconti come nessun altro ha saputo illuminare la cifra della bellezza di Delon, ovvero il magnetico contrasto fra il candore dei lineamenti e l’acume impietoso dello sguardo. Nella sua bellezza imperscrutabile c’è un mistero, di fronte al quale non c’è risposta razionale bensì una reazione di meraviglia: e la meraviglia («una sorpresa improvvisa dell’anima», come la definiva Cartesio) è la chiave per capire la fascinazione esercitata da Delon. L’incarnazione di un’era del cinema fatta di immaginazione più che di raziocinio, quella descritta da Edgar Morin nel suo saggio Il cinema o l’uomo immaginario, che infatti esce nel 1956, l’anno prima del debutto di Delon. Sul grande schermo, dice Morin, l’illusione di realtà è inseparabile dalla coscienza che si tratta effettivamente di un’illusione: nessuno, coscientemente, si chiede cosa c’è dietro. Delon ha costruito il suo mito sulla bellezza divistica di quegli anni, astratta più che empirica, simbolica più che fenomenica. Eppure del tutto reale. La bellezza di Delon è una grande illusione collettiva che parte dalla meraviglia per il segreto che si cela nel suo viso e diventa vera. È il rapporto fra bellezza e verità tipico dell’era moderna: come ci ricorda Philippe Daverio nel suo breve e illuminante saggio Che cos’è la bellezza, diventiamo uomini moderni quando passiamo dal concetto seicentesco per cui «nulla è bello se non ciò che è vero», al concetto romantico secondo il quale «è vero soltanto ciò che è bello». È la bellezza che genera verità. Non solo: la dimensione della bellezza diventa, nei secoli, sempre più dimensione morale. La bellezza salverà il mondo, dice il principe Myskin nell’Idiota di Dostoevskij, richiamando il concetto di pulchritudo dei di sant’Agostino. E la pulchritudo dei non è la bellezza di Dio, ovviamente, bensì l’armonia. La bellezza, nella concezione novecentesca, sta nella grazia.
Oggi il dibattito prosegue e si allarga. La verità, la bellezza, la dimensione morale e i rapporti che le legano sono concetti sempre più estesi, tentacolari, complessi, specie per quanto riguarda gli uomini di spettacolo. Da un lato, la star è sempre più illuminata nei dettagli nascosti e ambigui della sua vita personale, infrangendo il confine fra scena e retroscena che un tempo ne definiva l’identità. Dall’altro, movimenti come il #MeToo hanno portato a riflessioni sulle abiette e spesso taciute condotte di molti divi. Questo conduce sempre più spesso a mischiare i piani dell’arte e della vita privata: e poiché la bellezza è una dimensione della morale, se l’aspetto morale non è eccellente ne può fare le spese anche la bellezza, o la fascinazione.
Alain Delon, allora, è stato l’artista più incantevole mai visto, ma anche, si obietta, un individuo misogino, omofobo, conservatore. Ha rappresentato un modello di mascolinità oggi discutibile, o apertamente criticato. Il mistero inquietante del suo aspetto genera, in molti, fastidio più che fascinazione, poiché è lo specchio di un individuo moralmente grigio. Un artista che è anche un uomo. Un doppio. Sembra di essere in William Wilson, il capitolo diretto da Louise Mille del film collettivo Tre passi nel delirio, dove Delon è un cinico e sadico ufficiale austriaco perseguitato per tutta la vita da un uomo che gli somiglia e che lo tormenta. È il suo alter ego, la sua coscienza, la sua metà buona: e l’unico epilogo possibile è ucciderlo.
Oggi ciò che resta della bellezza è quel che filtra dalle maglie della verità, della morale, dell’ossessiva conoscenza di ogni dettaglio della vita intima. Delon ai nostri tempi sarebbe l’immenso divo che è stato allora? La risposta, o forse un’estrema domanda, forse sta in un’altra scena iconica della sua carriera: il dialogo con Monica Vitti nell’Eclisse di Antonioni, quando lei gli dice: «Io credo che non bisogna conoscersi per volersi bene. E poi, forse, non bisogna volersi bene». —
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