Corriere della Sera, 19 agosto 2024
È l’estate del 1949 e Giovanni Sartori scopre l’America. Con ironia (e autoironia)
Questa lettera fu indirizzata da un Giovanni Sartori venticinquenne, giunto a New York nel 1948 con una borsa di studio della Columbia University, alla scrittrice Clotilde Marghieri (1897-1981), di cui era stato ospite nella sua villa di Torre Annunziata (Napoli).
Del mio ritorno [in Italia, ndr] deciderà la prova estiva, le mie decisioni-volizioni sono in balia degli eventi-accadimenti (siamo «al di là» di Croce, parrebbe). È una prova che faccio per ragioni di prestigio e principio.
Penso anche non gioverebbe alla tranquillità ed alla salute del mio spirito tornarmene bastonato e con la coda tra le gambe, non voglio lasciare nulla di intentato nel tentabile. Laonde per cui mi rimetterò a fare il corrispondente (in proprio).
Programmi miei pochi o punti. Altri progetti sono vaghi e forse non si concreteranno mai… Dubito molto di poter evitar un prossimo inglorioso ritorno in sede, cioè nelle braccia familiari, uomo a carico. Il peggio è che ho fatto qui la bocca all’assoluta indipendenza: posseggo – per parlare pomposamente – una casa mia (è uno studio di pittore, in definitiva niente più di un grandissimo stanzone molto bohème, più cucina e bagno e ripostiglio per le tele altrui), cerco di tenermela pulita, faccio la spesa (con un certo disordine di orario, ma la faccio), cucino, mi agito per un magro salario, pago il conto per la spazzatura, il telefono e la luce. Cosa vuole di più per concludere che oramai sono un ménage a me? Aggiungo che New York mi affascina, nonostante le tanfate di nafta bruciata, il rush micidialissimo delle andate e ritorno alla dimora, nonostante che mi aspetti quel caldo estivo umido e atrocissimo che tutti si dilettano a illustrarmi: e la 57ma strada è veramente una magnifica strada così come si concepiscono a New York, rigurgitante di traffico e densa di grattacieli ordinatamente allineati.
A cominciare circa dal 10 luglio farò il tappabuchi per Leo Rea (tra gli altri giornali serve anche «il Messaggero», e malamente ne è servito con interpolazioni e tagli) per rifarmi un poco la mano e per ragioni di lucro: naturalmente non firmerò.
Poscia farò i servizi per (Ugo, ndr) Stille sul «Corriere», al quale tento appunto l’arrampicata. Stille vuole un secondo corrispondente e mi proporrà come tale: bisognerà vedere se un secondo corrispondente sarà concesso, e nella fattispecie se sarò gradito io. Da qua non posso avere più che promesse, e non ho altra scelta se non quella di correre l’alea. In agosto sarò pertanto il signor «Vice» del «Corriere», quel povero cane in lotta con il torpore delle notizie ed i miasmi della stagione locale: e se saranno rose fioriranno.
Le mie trame le ho tessute, cospirare ho cospirato, il resto è nelle mani delle divinità... e speriamo siano amabili.
Per darle un poco di color locale le dirò che noi Nuovayorchesi passiamo giornate e notti in bagno turco, in soffocante primizia di pieno-estate. Da una quindicina di giorni il barometro punta ai 95 gradi Fahrenheit, e l’umidità è arrivata alla bella percentuale integrale (o quasi) del 93%. Più che il caldo è l’umidità che nuoce, ogni mattina dall’alto del mio grattacieletto guardo con apprensione alle fumate di vapore che salgono dall’Hudson e dall’East River fino a diventare vere e proprie nuvole che precludono la vista. Qui non si gode di quel bel sole diretto che rosola i crani dei calvi: godiamo di un’aria viscida e surriscaldata che non distingue tra ombra e sole e nemmeno fa grazia nelle ore notturne. No, elettrizzati e dinamici non si può essere in questo clima leonino: sudati, gocciolanti, infreddatissimi e sfiniti, direi che questo è un quadro più veridico. Il signorino quest’anno è in gastigo, quest’anno ha da risicare per rosicchiare.
Caldo e aria viscida
Nel corso del processo
di americanizzazione, domenica scorsa presi una macchina a nolo con il mesto proposito
di andarmene al mare: meta Long Island... Partimmo in 3 milioni
e mezzo con lo stesso intendimento
Sempre per via del caldo, e nel corso del processo di americanizzazione, il signorino domenica scorsa prese una macchina a nolo con il mesto proposito di andarsene al mare: meta Long Island, la cosiddetta spiaggia dei milioni – almeno così la chiamavo io in Italia, con aristocratico disprezzo per il brulichio umano ivi diffuso. Per l’appunto quella mattina partimmo in 3 milioni e mezzo con lo stesso intendimento, e se era per un elicottero della polizia inviato a dirigere e deviare il traffico magari saremmo ancora tutti per la strada, insaccati per quattro e stagionati come quelle belle argille rosse che gli assiro-babilonesi destinavano ai millenni. Le risparmio il resto della storia, tutta corrente sulla stessa nota madre… un’ora di coda sulla spiaggia per bere una sorsata di acqua tiepida, digiuno integrale fino alla mezzanotte (sempre stante le code), quattro ore anche per il ritorno e così via. Soffrire per soffrire domenica da venire ho deciso di trascorrerla davanti ad un ventilatore... e riposarmi.
Ma basta con dio Febo, come vede ognuno ha i suoi. Non conosco The age of anxiety (di Wystan H. Auden, ndr). Dirò una frase eretica, le confesserò che la poesia moderna – a leggerla – mi stanca più della sistematica di Hegel.
Chiudo con questo sasso nello stagno, forse se non lo divulga non scandalizzerà nessuno. È che la poesia moderna è insieme cerebrale ed esasperazione linguistica: e la carica è un po’ forte per chi non si impegna che come lettore.
Che notizie ha dell’altro cavaliere errante, dico dell’amico Ottiero [Ottieri, ndr]? Non siamo molto d’accordo sui bassifondi industriali del proletariato milanese, ma gli voglio molto bene e vorrei vederlo arrivare a qualche conclusione, ne ha bisogno.
Mi ricordi a tutti, con molto affetto
suo Vanni.