Corriere della Sera, 19 agosto 2024
la sfida globale e le risposte
Doveva essere l’anno della verità e, come ogni anno che si annuncia in questi termini, il 2024 non potrà che deludere. Solo per restare ai Paesi occidentali, poco meno di un miliardo di persone sono state o saranno chiamate alle urne. Quasi ovunque nelle democrazie liberali era attesa l’affermazione di forze diverse, ma a loro modo con tratti comuni e nuovi rispetto alle tradizioni del dopoguerra: meno entusiaste di accrescere la cooperazione internazionale e approfondire l’integrazione europea; meno complessate nell’evocare i temi dell’orgoglio nazionale e del nazionalismo; non sempre, ma spesso, più insofferenti verso i pesi e contrappesi nelle istituzioni e nella società civile che inquadrano l’esercizio del potere in Occidente. Queste forze sembravano in ascesa irresistibile nel 2024. Ma giunti a questo punto dell’anno, possiamo dire che è così? Niente sarebbe più ingenuo che stilare bilanci a metà del cammino, soprattutto quando nell’altra metà ci aspettano le presidenziali americane.
Qualche indizio però inizia a esserci. Nel Parlamento europeo le forze «nuove» – la galassia sovranista di destra, ora articolata in tre gruppi – è passata dal 18% del 2019 al 26%. Il premier ungherese Viktor Orbán ha organizzato un nuovo partito europeo fino a farlo diventare il terzo a Strasburgo, i «Patrioti», con incisività e rapidità tali da far pensare che alle spalle abbia il sostegno coperto di Donald Trump e dei suoi. Le forze europeiste tradizionali invece – popolari, socialisti-democratici, liberali e verdi – sono scesi dal 69% dei seggi nell’europarlamento del 2019 al 63% in questo. Ma nel complesso non hanno avuto troppi problemi a mantenere un’ampia maggioranza, che infatti esprime la conferma di Ursula von der Leyen a Bruxelles.
In Francia, l’unità di tutti dei partiti contrari alla destra sovranista si è improvvisamente materializzata fra i due turni delle elezioni politiche e ha retrocesso il Rassemblement National dal primo al terzo posto. Negli Stati Uniti, il passaggio da Biden a Kamala Harris ha rovesciato i sondaggi in poche settimane.
Le forze tradizionali delle democrazie liberali, con le loro contraddizioni, con i loro limiti e la loro tendenza a compiacersi di sé, stanno imparando a riorganizzarsi. Non considerano più governare un loro diritto naturale. Non vedono più nel loro essere al potere lo stato normale delle cose. Hanno smesso di definire «deplorables» – copyright Hillary Clinton – quelli che non la pensano come loro. Ammettono, implicitamente, che alcune delle domande poste dai sovranisti sono reali. È impossibile per esempio capire i quattro anni di Joe Biden alla Casa Bianca senza accettare che il presidente democratico, un prodotto pluridecennale delle élite di Washington, ha fatto propri molti dei problemi sollevati anni prima da Donald Trump: sull’erosione del ceto medio, sulla classe operaia spiazzata dalle delocalizzazioni, sulla concorrenza cinese, sul ruolo di istituzioni globali come l’Organizzazione mondiale del commercio, che Biden ha continuato a sabotare in totale continuità con Trump.
In questo, le forze politiche più tradizionali hanno imparato qualcosa dai loro nuovi sfidanti. Hanno imparato il segreto che i nuovi hanno e loro avevano dimenticato da qualche parte lungo la strada: la ferocia, la tenacia, la determinazione, la voglia di combattere per ogni centimetro di terreno politico. Senza più dare niente per scontato. I leader delle forze tradizionali non si sentono più i padroni di casa, quelli che per lignaggio hanno diritto a fissare le regole del gioco. Anche loro diventano dunque capaci di sorprendere, di trovare soluzioni inventive quando sono spalle al muro, perché non credono più istintivamente che la vittoria sia loro dovuta. Hanno iniziato a sviluppare una retorica più istintiva, meno cerebrale, come quando l’entourage di Kamala definisce Trump semplicemente «strano». Hanno imparato a parlare delle preoccupazioni immediate della gente comune, come quando Kamala stessa mette al primo posto il costo della vita e della casa. E questa trasformazione li rende più temibili.
Naturalmente non tutto adesso andrà per il verso che vogliono loro. Il quadro politico in Francia è ancora avvolto dal caos e resterà fragile a lungo. L’essere di tre punti in testa nei sondaggi sul voto popolare, e davanti a Trump per la fiducia sulla gestione dell’economia, potrebbe non bastare a Harris ad arrivare alla Casa Bianca. Nel complesso la candidata democratica probabilmente è ancora sfavorita. Ma meno di prima. E soprattutto molto meno di Biden, perché ha generato un’onda di freschezza grazie alla sua grinta.
L’aria è cambiata in America. Così come è cambiata in Gran Bretagna, dove il partito conservatore che ha regalato al Paese la Brexit è stato maltrattato nelle urne, mentre gli elettori hanno dato fiducia a un partito laburista moderato che sta già riallacciando i rapporti con l’Europa. Così come è cambiata in Polonia, dove un partito centrista, europeista e democratico, guidato dal premier Donald Tusk, sta smontando anche con durezza la costruzione illiberale dei nazionalisti che l’avevano preceduto.
Questo non vuol dire che i partiti tradizionali siano in ascesa e i sovranisti in declino. Ma non è più necessariamente vero l’opposto. Un po’ di vera concorrenza ha giovato ai vecchi padroni della scena, li ha rivitalizzati. Lo scontro politico e culturale che attraversa le democrazie, segnando la nostra epoca, non è più una partita a senso unico.
Dunque, è presto per le conclusioni. Anche perché la sfida più difficile con il populismi di destra in Europa si deve ancora aprire. E no, non sono le presidenziali francesi entro il 2027. Non è l’Ungheria e non sono le mosse e le battute ambigue (eufemismo) del generale Roberto Vannacci. È la Germania: il Paese più indietro – ma non esente – nel ciclo del populismo nazionalista. E a un sistema politico tedesco messo sotto pressione da quelle forze non siamo ancora pronti. Nessuno lo è. Così il 2024, inevitabilmente, sarà l’ennesimo anno che ci lascia più domande che risposte.