Domenicale, 18 agosto 2024
Capri d’estate
«Ma ci devi proprio andare? Se proprio devi, almeno evita la piazzetta. È tutto carissimo, non puoi credere quanto ti fanno pagare uno spritz con due noccioline. E lascia perdere via Camerelle, non riesci nemmeno a camminare dalla folla. E poi che t’interessa, non è più come prima, ci sono solo gioiellerie e boutique del lusso. Non prendere la funicolare, un carnaio. Meglio un taxi al porto. Ma non puoi andare l’anno prossimo, in inverno o magari in primavera? Non a Pasqua però, che è presa d’assalto. Che idea, andare proprio adesso. Con tutti i posti che ci sono. Dico le isole. Perché non vai alle Faroe? O a Sylt, quella dei tedeschi ricchi? Sai che fanno anche trattamenti longevity? Potresti provare». A Sylt ci va Francesco Maria Colombo e i trattamenti longevity non mi interessano. Mi piacerebbe allungare la giovinezza, mica la vecchiaia. Alle Faroe piove, fa freddo e ci sono pure le zanzare. Eppoi – dico alla mia amica – tu ci vai da tutta una vita e ci passi l’estate. E allora perché io invece a Capri non ci posso andare?
Ecco allora. Andare a Capri, e scriverne. Ma come? Secondo l’amica di cui sopra è vitale attenersi alle Regole di Sopravvivenza Contro il Turismo di Massa dei radical chic, che aborrono la folla e fanno di tutto per scoraggiare chi si avvicina ai posti dove vanno loro. Regola numero 1. Evitare i luoghi che fanno di Capri Capri, come i Faraglioni, la Grotta Azzurra e Punta Tragara. Regola numero 2. Buttare lì nella conversazione che Capri era meglio prima senza specificare quanto prima sia prima, se ai tempi di Tiberio, di Krupp o di Guido Lembo che faceva ballare e cantare sui tavoli di Anema e Core. Regola numero 3. Uscire pochissimo, tumularsi in casa e non mettere piede fuori praticamente mai.
Oppure. Immergersi nella massa, affondando in quel fiume chiassoso e sudato di turisti che si accalcano al Molo Beverello di Napoli, in bermuda, cappellini, ciabatte infradito, passeggini, zaini, trolley, bottigliette d’acqua, tante bottigliette d’acqua. Salire sull’aliscafo dove dopo qualche minuto la temperatura diventerà polare perché con il caldo il mare mosso si sente di più. E ridere con gli australiani, gli indiani, i brasiliani, i tedeschi che ridono e ridono quando il marinaio della compagnia navale fa il suo buffo show in inglese per vendere i gadget con il Capri Brand prima ancora di averci messo piede sull’isola.
Essere felici è un’attitudine, quasi un talento dice Yasmina Reza, e in quel magma di persone che sta per vedere per la prima volta un luogo di cui ha sentito molto parlare c’è qualcosa che ha molto a che fare con la felicità. Ci sono posti che deludono, Capri mai. C’è questa malattia psicosomatica, la sindrome di Parigi, che pare sia un disturbo psicologico transitorio riscontrato da alcune persone che visitano per la prima volta Parigi – in particolare turisti giapponesi – che «sconvolti dal divario tra la realtà e la loro visione idealizzata della città si ritrovano disillusi e destabilizzati». Ora, non mi risulta di turisti giapponesi disillusi e destabilizzati a cena da Paolino perché il pergolato di limoni non era esattamente come lo avevano immaginato.
Sbarcato dall’aliscafo a Marina Grande, il magma umano raggiunge la stazione della funicolare e poi – stipato nelle carrozze – viene trasportato su fino alla piazzetta dove tutti transitano ma nessuno si ferma. Da lì la folla si disperde tra negozi di souvenir e brand del lusso, si mette in coda alla gelateria Buonocore per mangiare la cialda fatta al momento e sciama verso Punta Tragara per scattare l’unica, vera, autentica ragione della vacanza a Capri: il selfie davanti ai Faraglioni.
Ma a scendere fino alla Certosa dove Capri ha reso omaggio a Karl Wilhelm Diefenbach dedicandogli uno spazio permanente siamo pochissimi, una manciata di persone. Perché come tutti i luoghi presi d’assalto da quello che oggi chiamano overtourism anche a Capri basta qualche scartamento, una deviazione di pochi metri e si recupera il Wanderlust, la gioia di passeggiare lentamente. Capri è anche questa: lo ying e lo yang, snob e cafona, elegante e sudata, solitaria e caotica.
Diefenbach, naturista, nudista, teosofo e anche pacifista, è una di quelle personalità eccentriche che sempre nella storia hanno lasciato la terraferma per le isole, che non sono solo luoghi ma vere metafore dell’esistenza. La sua vita ha ispirato anche Mario Martone per il film Capri Revolution. All’inizio del Novecento, Diefenbach scappò dalla Germania creando a Capri una sua comunità di fricchettoni ispirata alla natura, all’arte, al rifiuto della violenza e al rispetto degli animali. Aveva cinquant’anni, una vita travagliata alle spalle ed era alla ricerca di un luogo dove trovare finalmente la pace e poter esprimere liberamente le proprie teorie in comunione con la natura. L’isola era in quegli anni, scrive Lea Vergine, «il polo magnetico, il punto di confluenza, la tappa obbligata, il luogo geometrico di amicizie e congedi dei più disparati destini, cardine attorno al quale ha ruotato grandissima parte della cultura e della politica dal 1905 al 1935, tanto per mettere a fuoco un periodo aureo che oggi sembra arcaico ma il cui senso non ha cessato di lasciare aspettative».
Risalendo controcorrente rispetto ai turisti che puntano ai Giardini di Augusto per scattare altri selfie, un’altra piccola deviazione e ci ritrova praticamente da soli a Capri anche d’estate. Dalla piazzetta in dieci minuti di cammino si arriva ai due cimiteri contigui ma separati, il Cimitero Cattolico e quello Acattolico. Lì sono sepolti Jakob von Uexküll e la moglie Gudrun von Schwerin, un’aristocratica tedesca. Il barone von Uexküll, vero padre fondatore dell’etologia, nemico di quel Konrad Lorenz di simpatie naziste, ha trascorso la sua vita a osservare il comportamento della zecca e della sua unica fonte di stimolazione: l’acre odore di acido butirrico emesso dalla pelle dei mammiferi. von Uexküll e la moglie si trasferirono a Villa Discopoli a Capri da Amburgo nel 1940 su insistenza del medico di famiglia per sfuggire agli allarmi notturni che non giovavano alla salute di Jacob che era cardiopatico.
Alla morte del marito, Gudrun continuò a risiedere a Villa Discopoli per molti anni e sarà un personaggio di riferimento per la comunità di poeti, artisti, scrittori e studiosi che in quegli anni vivevano sull’isola. Sulla lapide di Gudrun, i versi da L’esperienza della morte di Rilke scritti nel periodo trascorso proprio a Villa Discopoli: «Nulla sappiamo di questo svanire che non accade a noi». Negli anni capresi Gudrun e Jacob conobbero un’altra celebrità dell’isola, Axel Munthe, che durante l’estate li ospitava nella foresteria di Villa San Michele nella parte più riservata dell’isola, Anacapri, per sfuggire dall’insopportabile calca dei turisti. Ahhh, quell’odore di acido butirrico...