La Stampa, 17 agosto 2024
Biografia di Yahya Sinwar, capo di Hamas
Nell’ottobre dello scorso anno, per il premier israeliano Netanyahu, Yahya Sinwar – il regista del più grande massacro di civili della storia di Israele – era ormai «un morto che cammina». Quasi un anno dopo, Sinwar è diventato il capo indiscusso di Hamas e con lui trattano, freneticamente, gli Stati Uniti, il Qatar, l’Egitto, la Francia. E Israele. Sinwar detta le regole, mercanteggia, impone condizioni, corregge il piano del balbuziente uomo delle portaerei e dei missili, Biden. E soprattutto non è morto. Sinwar è. Mentre Gaza, strappata a morsi, butterata dalle bombe, sembra destinata a tornare alla terra, una distesa di sabbia dove crescerà il nulla.
Ecco di qui bisogna partire, in un posto dove soffiano perfidi i venti dell’odio e della paura: la morte, lo scandalo della morte, che in realtà è tale solo per il pensiero, è sempre e soltanto la mia morte. Non possiamo dire né pensare: sono morto. Possiamo sentire e dire: io sono. Certo Sinwar resta un morituro, colui che morirà. Che stia morendo, come assicurava Netanyahu, beh! quella è un’altra cosa. Perché così la morte non è più un incidente terribile, un avvenimento che capita di colpo. La morte è in te, fa il suo lavoro, lo porterà a termine, non molla la presa, è sicura, più di Netanyahu, di vincere alla fine la partita. Ma la morte, per Sinwar, non si realizza nella raffica di un giustiziere anonimo del Mossad o di Tsahal. È diventata la sua fida compagna, si direbbe che ha stretto un diabolico rapporto con lui. È la sua arma. Sinwar è invisibile e imprendibile.
In un posto dove ogni giorno i cimiteri guadagnano spazio e i morti sembrano destinati a scavalcare il numero dei vivi, la morte differita di Sinwar è la prova della sconfitta di Israele. Forse è questo il centro della biografia del capo di Hamas, il suo segreto che Israele non ha decifrato. Thanatos l’ha contaminato e lui a sua volta contamina con Thanatos. Il Nulla ha sempre un futuro.
Sfoglio i capitoli della sua vita. Si può dire che non manchi niente, tutto è minutamente documentato, segnato, raccolto. Sinwar si svela anno dopo anno, nessun mistero o silenzio che accompagna l’opaco identikit dei terroristi: l’infanzia nel campo profughi, nessun breviario nichilista solo l’islam con la promessa di martirio e di paradiso può dare un significato grandioso alla prospettiva di morire in una viuzza appestata dai rifiuti, gli studi tra teologia e letteratura, l’arruolamento con lo sceicco paraplegico, l’eliminazione implacabile dei traditori palestinesi che si sono venduti al nemico, “il macellaio di Kahn Yunis”, i ventidue anni nelle prigioni israeliane, ventidue anni! C’è il tempo per studiare anche l’ebraico, conoscere bene il nemico, decifrarlo dall’interno, mentre fuori si srotolano accordi fantasma, Stati finti, intifade sanguinose, la libertà grazie allo scambio con un soldato catturato (impara che gli ostaggi servono...). Per lui la lotta palestinese è il frutto di forze storiche non un regalo di dio. Infine la guida dell’ala militare di Hamas.
Fino a ora c’è qualcosa che colpisce, che lo distingua da altre decine di biografie simili? Nulla. Né eroe né personaggio eccezionale né destino.
Ma è a questo punto, il sette ottobre, che Sinwar diventa Ombra. Solo una persona può testimoniare di averlo incontrato, Margalit Moses l’insegnante portata via dal kibbuz di Nir Oz, poi liberata. «Tu sai chi sono?», le disse l’uomo apparso dal nulla nel tunnel dove veniva, con altri, tenuta prigioniera. C’è molto in quella breve frase, c’è Sinwar: Tu sai chi sono? Nella città capovolta, che le bombe hanno, si direbbe, fatto rientrare sotto terra flagellata dagli urti di un maglio possente, si gioca una partita di spettri fra le rovine di un futuro abolito, ostaggio e sequestratore, tabula rasa, le facce atrocemente gemelle di un odio funesto, umanesimo anno zero. Poi nulla. Solo i tunnel come dimensione definitiva e inafferrabile, come prima e ultima parola del mondo, specchio delle rovine che si accumulano in superficie, doppio labirinto senza scampo dove il sole brilla solo come astro morto. Sinwar, questo vivo quasi morto quanto i morti, la sua esistenza di animale braccato o di insetto senza scampo, la trasforma in scenografia, in tappa difficile ma transitoria della vittoria. Diventa ombra ma palpabile, la nera silohuette affilata in un tunnel di una sequenza diffusa a gennaio, oltrepassa tranquillo un cancello e tiene la mano di un bambino (ostaggio, figlio?) davanti a sé scivola la sagoma di una donna, forse la moglie. A febbraio ancora lembi, tracce, un rifugio lasciato di corsa secondo i soldati israeliani, una cucina, i materassi per le guardie del corpo, rotoli di denaro nascosti in cassaforte. Era lì? Buio ombre baratri di mistero. Per Gallant, il ministro della Difesa israeliano, era ormai un topo in trappola, quasi folle per la solitudine e la paura, che non poteva più dare ordini a nessuno perché tutti i suoi luogotenenti erano stati eliminati.
Agosto. Sinwar dà ordini ai negoziatori di Doha, respinge ciò che non vuole. Attendiamo pazienti gli ordini di questo atrabiliare califfo palestinese. Sinwar è una fotografia scattata quando ancora pubblicamente baciava per premio gli eroi di Hamas, occhi duri, immobili che come due valvole non si lasciano penetrare: sì, ci sono occhi che danno, occhi che prendono e occhi che non si lasciano penetrare. È già immagine per infiniti manifesti, murales, leggende che creano altri martiri.