La Stampa, 18 agosto 2024
Io, infermiere a Gaza e l’incubo della polio
Che valore dareste a una stampella? Una di quelle semplici, ortopediche, usate dai pazienti come ausilio per camminare. A Gaza, oggi, è un bene primario ed essenziale. Prima ancora del cibo. Perché se sei ferito o hai subito l’amputazione di un arto e devi seguire un ordine di evacuazione diramato dall’esercito israeliano prima di un raid o di un bombardamento, una stampella assume il valore impagabile della tua unica possibilità di salvezza. E traumi, ferite e amputazioni sono i casi più frequenti, negli unici due ospedali – l’Al-Aqsa a Deir Al-Balah e il Nasser a Khan Yunis – che sono ancora, almeno parzialmente, in funzione rispettivamente nel Centro e nel Sud nella Striscia. Ma sono ospedali senza più letti. I pazienti vengono trattati sui pavimenti. Le persone – e soprattutto bambini – sono ovunque, in condizioni igienico sanitarie disastrose.
Abbiamo saputo che il ministero della Salute palestinese ha accertato il primo caso di poliomielite in un bambino di dieci mesi, non vaccinato, proprio qui, a Deir al-Balah. I test, effettuati ad Amman in Giordania, hanno confermato la diagnosi. Quello che è molto allarmante è la concomitanza tra l’isolamento del virus e la comparsa dei sintomi, come ad esempio la paralisi flaccida nei bambini. Ma a Gaza non ci sono laboratori per diagnosticare la malattia. E le condizioni per fare uscire i campioni sono complicate. Per tanto, valutare la diffusione del virus è impossibile.
Sono tornato a Deir Al-Balah da due settimane. C’ero già stato a dicembre. I problemi di oggi sono gli stessi di allora ma estremamente amplificati dai dieci mesi di guerra. Mancano le cure primarie. Con Msf offriamo supporto ai pronto soccorso, nelle sale operatorie, in fisioterapia e chirurgia, in maternità.
Le aree sicure sono sempre più affollate e compatte. Già sembrava impossibile allora, che due milioni di individui potessero trovare rifugio in zone umanitarie limitate. Oggi è inimmaginabile.
Gaza è l’unico contesto bellico al mondo dove la popolazione non ha modo di scappare. In Sudan, da dove sono tornato prima di ripartire per la Striscia, i civili possono in qualche modo riuscire ad allontanarsi dalla zona del fronte. Ma qui? Intanto, una linea chiara, un fronte vero e proprio, nemmeno c’è. Gli attacchi sono a 360 gradi, possono colpire ovunque. E non c’è una via di fuga possibile. Le persone, a Gaza, sono imprigionate tra il muro di confine e il mare. La sottile zona costiera è l’unico posto ancora sicuro.
Per entrare nell’enclave ho attraversato il valico di Kerem Shalom. Una scena così l’avevo vista solo a Raqqa, in Siria, nel 2017. A Est del mare, tra Deir Al-Balah e il confine, non esiste più nulla. Ci sono solo tende di rifugiati ovunque, circondano edifici distrutti. Che poi, la parola tenda, di fronte a teli di plastica stesi sulle teste, a volte è un eufemismo. Il sovraffollamento è totale: di persone, mezzi, carretti, animali, materiali.
I combattimenti tra i soldati israeliani e gli uomini di Hamas sono vicini. Non li vediamo. Ma le raffiche delle mitragliatrici le sentiamo eccome. Questa mattina (ieri per chi legge, ndr) ci siamo svegliati alle 5 per i bombardamenti israeliani, ad appena due chilometri da qui. Siamo 13 operatori stranieri e viviamo in una casa presa in affitto da un gazawi. Averla affittata a noi, per il proprietario, è un po’ come aver stipulato una forma di assicurazione. È come se generassimo una bolla fortunata che offre protezione a chi ci circonda. E attorno a noi, ieri, sono stati diramati due grossi ordini di evacuazione dai militari israeliani. E anche il nostro staff locale – 500 persone – ha dovuto occuparsi di spostare le famiglie. Non ho sentito esprimere rabbia, almeno apertamente, verso Israele. Ma tantissima demotivazione. Nessuno crede che la tregua si farà. L’unico obiettivo per il futuro è riabbracciare i familiari. Negli sguardi che incontro c’è incredulità e stupore per la mia scelta di essere qui. E molta riconoscenza.
Testo raccolto da Fabiana Magrì