Robinson, 18 agosto 2024
Intervista a Edoardo Camurri
Compirà cinquant’anni tra poche settimane, Edoardo Camurri. Uomo lieto e gentile. Veloce e spiazzante. Una natura maliziosamente francescana al tempo dei social. Prendete il suo nuovo libro (praticamente un esordio nella saggistica filosofica) – Introduzione alla realtà (edizioni Timeo) – e vi accorgerete rapidamente che dietro il titolo al quanto anodino ribollono pensieri acuti e ferocemente cortesi. Avrebbe potuto essere un trattatone di 600 pagine e invece Edoardo ci consegna un condensato che arriva appena alle cento pagine. «Se vuoi dire una cosa importante non è detto che devi ricorrere a quintali di note e di erudizione», sottolinea con disinvoltura. Del resto lo ha aiutato e lo aiuta il suo lavoro multiplo: conduttore televisivo (apprezzatissimo da Aldo Grasso), giornalista, scrittore. Nel piccolo pantheon dei suoi miti spiccano Rodolfo Wilcock e Bobi Bazlen. A quest’ultimo deve l’aggettivo «primavoltità». Al primo è debitore di una certa bizzarria culturale, un’estroversione che in Wilcock era curiosità assoluta e in Camurri un sentiero da percorrere come fosse un’iniziazione. Ecco una parola che lo attrae particolarmente. Hai chiamato il tuo libro Introduzione alla realtà non era meglio Iniziazione?
«Ci ho pensato e poi ho concluso che noi siamo introdotti alla realtà senza alcuna consapevolezza. L’iniziazione è un secondo ingresso nella realtà. Un percorso per rinascere».
Davvero abbiamo bisogno di rinascere?
«È tra le parole più belle che io conosca. Ma non potrei riuscirci senza sperare di iniziare una nuova vita, un nuovo modo di guardare il mondo. Quando nasciamo non siamo pronti, tutto è fuori dal nostro controllo, ci aggrappiamo disperatamente alla vita, alle sue regole. Siamo disorientati e spaventati. Ricorriamo alla figura della madre che addolcisce la nostra sofferenza».
È il nostro venire al mondo.
«Non lo abbiamo deciso noi. Nasciamo fortuitamente, come gettati su questa terra. Nascendo entriamo nella realtà. Ma la realtà è ciò che resiste».
Che ci mette alla prova.
«E che ci fa soffrire, sperimentiamo per la prima volta il dolore e che cos’è il potere dell’ambiente, vediamo i nostri limiti, la nostra fragilità, assistiamo alla disgregazione del nostro io. La nostra impotenza genera paura e la paura è il primo passo verso la sottomissione al potere dell’altro».
Per questo abbiamo inventato la tecnica. Tutta la modernità è il tentativo di assoggettare la natura mediante la scienza e la tecnica.
«Quando penso alla storia della tecnica mi viene voglia di ridurla ad epica aziendale. A un’organizzazione fatta di numeri e omologazioni. Assoggettando la natura, o meglio la realtà, vogliamo somigliarle. Ma la verità è che la realtà ci vuole conformi ad essa».
Che cosa intendi per realtà?
«La realtà è prima di tutto un ostacolo, un muro che non puoi aggirare. È come se ci dicesse: non puoi ignorarmi e se vuoi vivere devi farlo alle mie regole. Nel mentre pretende di educarci provoca i nostri traumi».
Tu parli nel libro di «trauma» e «thauma». In pratica angoscia e meraviglia.
«Corrispondono alle due strade che abbiamo di fronte: una ha le proprie radici nel patire, cioè nell’accettare ciò che la realtà ti detta, l’altra è assumere lo stupore come guida per andare oltre».
Ma il principio di realtà ci mette in guardia da sogni e illusioni.
«Vero, ma noi non siamo diversi dalla realtà, noi siamo parte di essa, anche le illusioni, anche la irrealtà partecipa della realtà».
Prova a spiegarti.
«Per sopravvivere abbiamo bisogno di una realtà che non esiste, abbiamo appunto bisogno di sogni e illusioni, al cui regno non possiamo resistere. Nel mondo diurno crediamo di essere decisionisti e di controllare quella realtà che ci impone le sue regole, nel mondo notturno la realtà onirica si fa beffe di noi».
Oppure ci aiuta a cambiare la realtà.
«Diciamo che si oppone a quel realismo che pretende di occupare ogni spazio».
Il realismo è prerogativa della politica.
«Ma anche i sogni appartengono alla politica, solo che il realismo ha il suo esito ultimo nel potere del Leviatano».
Il mostro con cui Hobbes identificò lo Stato assoluto.
«Che è poi la risposta securitaria alla paura e al senso di insicurezza. Di cui oggi si servono certi politici. La realtà può essere preghiera oppure malattia ontologica».
Preghiera?
«Non nel senso edificante, ma come appello, come pienezza che l’esperienza ordinaria non ci dà».
Parlami della tua vita ordinaria. Dove sei nato?
«A Torino, sono torinese per parte di padre e langhetto per parte di madre. Ho vissuto la mia infanzia in provincia, quando potevo ero spesso a giocare o a leggere nel bosco circostante».
Cosa facevano i tuoi?
«Papà ingegnere, la mamma con la sua quinta elementare era la colonna della casa. Un po’ ansiosa».
Perché?
«Temeva che nel bosco volessi suicidarmi. In realtà avevo costruito una capanna dove mi rifugiavo a leggere. Vivevo una vita parallela».
Nel senso?
«Quella scolastica fu mediocre, la vita nei libri esaltante. Debbo questa passione a mio nonno, un matto assoluto, un anticonformista come pochi. Fu lui a passarmi i grandi libri. A lui devo i miei incontri con Pascal, con Simone Weil, con certi testi di mistica ebraica. Mio padre non vedeva di buon occhio la sua influenza su di me. Credo fossi l’unico in famiglia ad amarlo svisceratamente. Era afflitto dall’horreur du domicile».
Questa irrequietezza come si manifestava?
«Non faceva che traslocare da una casa all’altra. Alla fine andò a vivere all’hotel Roma, lo stesso dove si suicidò Cesare Pavese. E lì nella sua camera arredata di libri e piena di dischi, era un gran melomane, che andavo a trovarlo».
Accennavi alla tua mediocrità scolastica.
«Ma sì, mi annoiavo terribilmente. L’università fu un po’ meglio. Ricordo che una sera durante una partita a biliardo con un compagno di facoltà, discutendo di Cartesio scoprimmo il dubbio cartesiano. Tornai a casa spaventatissimo».
Ma dai!
«Sì, sì. Cartesio in un colpo solo metteva in dubbio tutta la realtà. Mi consolò il fatto che parlasse di “dubbio metodico”, e allora mi chiesi: come può esserci un metodo nel dubbio? Il metodo è fonte di certezza. Ossia il contrario del dubbio. Su questo paradosso cominciai a riflettere».
In fondo Cartesio mirava all’evidenza delle cose che solo la matematica gli poteva assicurare.
«Al contrario di ciò che pensava Cartesio si affacciò in me l’idea che fosse auspicabile il contatto con la realtà inesprimibile».
Che ha molte vie di accesso. Tu hai privilegiato, anche nel libro, quella psichedelica. Ma prima che tu mi risponda vorrei sapere perché hai lasciato Torino.
«Forse perché era l’opposto di mio nonno: prevedibile e perbenista. Una città da cui viene voglia di scappare, apparentemente placida, in realtà luttuosa come le vetrine di certe pasticcerie torinesi descritte da Guido Piovene. Fateci caso, diceva lo scrittore, sono arredate di un velluto nero e in quel velluto fanno mostra di sé i cioccolatini avvolti da carta dorata. Sono le stesse vetrine delle pompe funebri. Ma la verità che alla fine sono andato via da Torino perché la mia fidanzata di allora morì in un incidente aereo. Un lutto che lì non riuscivo ad elaborare».
Scegliesti Roma. Perché?
«Avevo contatti di lavoro, ma la motivazione vera per me era che nella periferia di Roma aveva vissuto come un esule Rodolfo Wilcock. Lui è morto nel 1978, avevo quattro anni, ma quando fui in grado di leggere i suoi libri, prelevati dallo scaffale di mio nonno, compresi la sua grandezza. Fu un uomo terribilmente intelligente e arrendevolmente dolce. Voglio dire dotato di un’intelligenza spigolosa e di una dolcezza assoluta, quasi bambinesca».
Possono convivere questi due stati?
«Perché no? Ricordo una sua bellissima lettera a Elsa Morante, dove alla tenerezza del messaggio si accompagnava la precisione del giudizio. Soltanto in Wittgenstein ho ritrovato la stessa intensità. In fondo, tutto ciò che ho fatto è legato a questo doppio filo».
Come tradurresti in letteratura la parola «dolcezza»?
«Capisco il rischio di cadere nello sdolcinato, ma poi chissenefrega. Quando ho letto il romanzo di Elsa Morante Il mondo salvato dai ragazzini ho pianto. E questo per me è thauma. La letteratura non esiste senza meraviglia e angoscia».
Tornerei all’esperienza psichedelica, tra l’altro un autore a te caro è Aldous Huxley.
«Per Huxley le droghe potevano essere narcosi o illuminazione. Temeva, come immagina nel Mondo nuovo che una società totalitaria avrebbe potuto mettere a punto uno psicofarmaco capace di creare una dittatura senza lacrime. E in opposizione a tutto questo vide in alcune sostanze psichedeliche la possibilità di far emergere la parte migliore dell’essere umano».
Non ti pare una visione eccessivamente ottimistica?
«L’esperienza psichedelica non garantisce niente. Puoi farla per curiosità, per raccontarla agli amici o magari per vedere il volto di Dio. Insomma dipende dalle tue motivazioni. Ma quello che suggeriscono i grandi interpreti è non avere aspettative. Devi solo metterti in posizione di dialogo».
Dialogo con chi?
«Con la tua parte profonda e con ciò che quella realtà rinnovata rivela. La parte invisibile di te e del mondo».
Stai indicando una via sciamanica?
«Nel libro alcuni aspetti di quella tradizione ricorrono: la foresta, l’albero, il tamburo. Manca il volo, ovviamente scherzo».
Si entra in una questione fondamentale: come dire cose che non si possono dire.
«In fondo le uniche cose interessanti da dire sono proprio quelle che non si possono dire. È il principio fondamentale della letteratura e della poesia. Ho impiegato molti anni per scrivere questo libro di 100 pagine che considero il mio primo vero libro e probabilmente l’ultimo».
Ti sei messo sulla strada di una grande esperienza culturale, senza effettivi sviluppi nella vita pratica.
«L’esperienza psichedelica è dentro la storia della cultura, come modi o stili di vita, fin dalle origini delle civiltà. Al tempo stesso, quell’esperienza può rivelare la tua parte più profonda, nella quale il thauma funziona come un grande solvente».
Alla fine siamo sempre nell’artificio, nel farmaco. Chiediti perché la natura umana ha impedito che si aprissero quelle famose porte della percezione. In fondo c’è in ogni farmaco qualcosa di violento: veleno e cura. Ma non sempre la cura ha la meglio.
«Come è violento venire al mondo e stare dentro la realtà. Poi contesto il termine artificio perché anche la realtà ordinaria è un artificio, una costruzione. Tutti noi siamo posseduti da qualche sostanza. La nostra è una società cocainizzata. L’alto consumo di cocaina e dall’altro l’uso ormai esteso di antidepressivi danno la tonalità emotiva a una società che richiede all’individuo prestazioni sempre più elevate, sempre più al limite».
Che società è la nostra?
«Una società costruita sulla performance e sulla paura. La farmacologia è ormai una branca della politica. Tutti noi siamo permanentemente posseduti da qualcosa: dai farmaci, dalla pubblicità, dagli algoritmi, dalle ideologie. Siamo posseduti da miliardi di batteri e di virus che abitano nel nostro corpo. A me sembra allucinata la realtà ordinaria che nel nome della paura di morire rinunci ad ascoltare l’appello di una realtà che rifiuta i modelli di violenza e di potere».
Con quali strumenti?
«Con la lingua della preghiera e dell’amore. Lo so, può apparire inadeguato e perfino ridicolo. Ma penso alla Canzone dei Felici Pochi e degli Infelici Molti di Elsa Morante. Sono quei Pochi, con gli strumenti dell’ironia e della gentilezza, a indicare la lunga strada che abbiamo da percorrere».
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