Robinson, 18 agosto 2024
Intervista a Emmanuel Carrère
«Be’ in realtà non aveva un grande ruolo da collaboratore, lavorava come interprete. Scomparve subito dopo la Liberazione, poco prima di compiere 46 anni. Il fatto è che mia madre allora aveva quindici anni, non l’ha più rivisto. Per lei quella vicenda fu terribile, uno strano mix di dolore e vergogna. Un momento molto difficile. Per queste ragioni non voleva forse ne scrivessi. Dopo il mio racconto tra noi si è creata tensione, ma poi le cose si sono sistemate». Per capire meglio questa storia bisogna riandare alle pagine del romanzo dove lo scrittore racconta di quel nonno emigrato in Francia nei primi anni Venti «sposato con una giovane aristocratica russa povera quanto lui» arrestato a Bordeaux il 10 settembre 1944 da sconosciuti e mai più tornato. Una tragedia che segnò la vita della madre: «Da adulta, la ragazza povera con un nome impronunciabile è diventata sotto il cognome del marito – Hélène Carrère d’Encausse – docente universitaria, poi autrice di bestseller sulla Russia comunista, postcomunista e imperiale». Poi eletta all’Académie française, di cui è stata segretaria a vita: «Questa straordinaria integrazione in una società nella quale suo padre ha vissuto ed è scomparso da paria si è costruita sul silenzio e, se non sulla menzogna, sul diniego».
Non pensa che avrebbe dovuto rispettare il silenzio? Se potesse tornare indietro cancellerebbe quelle cose scritte?
«Sinceramente no. Quella non era solo la sua storia, era anche la mia storia. Era la storia della nostra famiglia. Era il fantasma che ci perseguitava da tempo. Non mi pento affatto di aver dato sepoltura a quel fantasma».
Ne avete più parlato negli anni successivi?
«Qualche anno fa. Mi ha detto: “Hai fatto bene”».
Ci è rimasto male quando sua madre ha proposto di dare un posto a Houellebecq tra gli “immortali” dell’Académie française?
«Lei ammirava molto la sua opera e le sarebbe piaciuto che entrasse nell’Académie. Houellebecq le ha detto però che non era interessato. Da quanto mi ha raccontato mia madre in seguito, ha rifiutato con molta gentilezza».
Le è dispiaciuto che non abbia proposto lei?(sorride)
«Non sogno l’Académie».
Proviamo allora a fare un’intervista ucronica. Immagini una vita completamente diversa, fuori dal campo dell’arte. Se non fosse stato uno scrittore?
«Non saprei… Forse mi sarebbe piaciuto essere qualcuno che cerca di cambiare il mondo e non solo descriverlo. Qualcuno che sta dentro ai fatti piuttosto che un osservatore esterno».
Non pensa che si possano coniugare le due cose, la vita attiva e quella riflessiva? Molti scrittori lo fanno e lo hanno fatto.
«A chi pensa?»
Un modello Hemingway le piacerebbe?
«No, no, no... Perché lotta con i tori? Non sono convinto che tutte le sue cose da macho – la caccia e la pesca di grosse prede, i combattimenti con i tori, il bere pesante, eccetera – lo rendano un modello di scrittura attiva come, ad esempio, T.E. Lawrence. Ma posso sbagliarmi. Piuttosto sceglierei Mario Vargas Llosa, che è stato anche un politico importante nel suo Paese. Comunque sono tanti i grandi scrittori del XIX secolo che hanno avuto realmente un’influenza sulla società: Sartre, Dickens, Tolstoj, Hugo. Loro sì che hanno realmente cambiato il mondo in cui vivevano».
E nel suo caso, crede che i suoi romanzi, le sue opere, possano avere un effetto sulla vita delle persone, sulla società?
«Al massimo credo possano incidere sulla vita privata di qualcuno. Lo spero. Forse a qualche lettore può accadere. In uno scritto molto interessante intitolato Why I write (Perché scrivo), George Orwell sostiene che sono quattro le ragioni principali per cui si scrive. La prima è la vanità: il desiderio di diventare importanti, di essere ammirati dalle persone».
È così anche per lei?
«Certo, ma non solo per me, penso sia lo stesso per ogni scrittore. Chi dice il contrario è un bugiardo».
E le altre motivazioni elencate da Orwell quali sono?
«La seconda è un’ossessione estetica per le cose ben fatte, per l’aspetto artigianale della scrittura. Ogni scrittore tende a questo, anche io cerco di scrivere al meglio. C’è poi la dimensione politica, il desiderio, che Orwell conosceva bene, di avere un impatto nel mondo reale, nella società, che è quello di cui parlavamo. Per quanto mi riguarda non ho nessuna speranza di cambiare il mondo con i miei libri».
Manca la quarta ragione.
«È la spinta a vedere il mondo da una prospettiva diversa, in maniera originale, out of the box come dicono gli inglesi. È quello che cerco di fare, per me è molto importante riuscire vedere le cose in un modo libero. Anche scrivere ucronie può far parte di questo pensare fuori dagli schemi perché rappresenta una condizione per immaginare un percorso alternativo».
Quando ha capito di voler diventare scrittore?
«Presto, ero giovanissimo. Ero quel tipo di adolescente che legge molto. Passare dalla lettura alla scrittura è stato abbastanza naturale. Ho iniziato a scrivere imitando i libri che amavo».
Curioso, anche Jon Fosse in un’intervista a Robinson ha raccontato di aver iniziato a cimentarsi con la scrittura imitando altri scrittori, tra cui Knut Hamsun.
«Io spaziavo dalle avventure di Sherlock Holmes ai romanzi di Alexandre Dumas e Balzac. Poi nella tarda adolescenza ho iniziato a leggere molta fantascienza e racconti dell’orrore. E a interessarmi di ucronie. La cosa curiosa è che tutti sappiamo che cos’è l’utopia mentre l’ucronia non gode dello stesso prestigio letterario e rimane qualcosa di piuttosto marginale e provinciale».
Le ucronie letterarie sono sogni di ribellione?
«In questo libro provo a riflettere proprio su questo. Mi pare che le ucronie narrative siano principalmente di due tipi: il primo, puramente sentimentale, punta a rinarrare la storia come avrebbe potuto essere e non è stata».
Faccia un esempio.
«La prima ucronia in assoluto, la più caratteristica, è stata scritta da Louis-Napoléon Geoffroy- Château, figlio di un ufficiale dell’esercito napoleonico, che non rassegnandosi all’idea della caduta del suo imperatore scrive un libro dal quale cancella la sconfitta di Waterloo. Inventa un’altra storia: il mondo come lui avrebbe voluto che fosse. Poi ci sono le ucronie intellettuali, quelle che si interrogano sul perché le cose siano andate in un certo modo e non in un altro. Cosa alla quale non credo ci sia risposta».
In entrambi i casi sembra un gioco triste, perché non si può cambiare il passato ma solo immaginare di farlo.
«Non si può cambiare il passato, vero. C’è un libro affascinante su questo, un saggio di Roger Caillois su Ponzio Pilato che si interroga sul senso del bivio. Ogni ucronia in fondo è una scelta tra due strade. Caillois riflette sulla decisione di Pilato perché sa che da quella dipende il corso della storia della cristianità e quindi l’intera storia dell’Occidente. Pilato avrebbe potuto liberare il presunto Messia anziché sottoporre alla folla la scelta fra Gesù e Barabba ed è evidente che una tale possibilità ci avrebbe risparmiato il cristianesimo».
E il nostro mondo semplicemente non sarebbe stato quello in cui viviamo.
«Il Ponzio Pilato di Caillois si chiede: perché dovrei condannare quest’uomo? In fondo si trattava di un esaltato religioso fondamentalmente innocuo. Il governatore della Giudea fa varie valutazioni. Una via, quella imboccata dalla storia reale, consegna Gesù al supplizio giudicando che tutto sommato un’ingiustizia è meglio di una sommossa. L’altra via è quella della liberazione. Caillois a questo punto immagina Pilato a fine giornata che racconta i suoi dubbi, chiede consigli, discute e alla fine decide di lasciare andare quel ragazzo. Gesù non muore sulla croce e vive fino a tarda età circondato da una reputazione di santità e saggezza. In questo caso sarebbe stato un profeta come tanti, destinato dopo morto ad essere dimenticato nel giro di cinque, dieci anni. Quella di Caillois è una meditazione sulla storia e una meditazione filosofica che apre a tante domande».
La storia è fatta perlopiù di accidenti? La cristianità è anche al centro del suo Il Regno.
«In quel libro mettevo insieme piccoli eventi, cose ininfluenti che però hanno avuto conseguenze enormi, inimmaginabili. È già incredibile che un gruppetto di ebrei pescatori che vive in una parte piccola e remota dell’Impero romano abbia potuto dar vita alla storia del cristianesimo, che la loro storia sia diventata la nostra storia, che non sia stata completamente dimenticata. La storia dell’inizio della cristianità è la cosa più strana che sia mai accaduta. La sproporzione tra le cause e i risultati è assolutamente sbalorditiva».
Messa in modo molto largo, anche altri suoi libri possono forse essere letti come ucronie. In fondo l’autofiction non è che una narrazione possibile della propria vita. Ciascuno di noi sceglie come narrarsi?
«È quello che facciamo tutti. Tutti noi pratichiamo l’ucronia in un modo o nell’altro (sorride, ndr), inventiamo biografie possibili».
Ne L’Avversario il protagonista, Jean-Claude Romand, inventa una vita di menzogne della quale rimane prigioniero fino a trasformarsi in un killer.
«La sua vita reale era molto noiosa, priva di qualsiasi stimolo, mentre quella segreta, inventata, ucronica, finisce per diventare un incubo».
Lei ha raccontato molto di sé nei suoi libri, compresa la depressione. Ora come sta?
«È un buon momento. Sì, direi proprio che lo è»