La Lettura, 18 agosto 2024
La Venezia di Ida Dalser
Emettono urla agghiaccianti; nei loro capelli si avvinghiano le serpi, sono portatrici di vendetta. Si palesano là dove è stata commessa un’ingiustizia violenta: i greci le chiamavano Erinni, ma sono conosciute anche come Furie.
È una storia di castighi e demoni, di una passione carnale diventata uno scandalo da tumulare, quella raccontata da Fabiano Massimi (Modena, 1977) nel suo Le furie di Venezia (Longanesi). Un romanzo storico ambientato nell’era fascista, che racconta la storia vera di Ida Dalser, madre del primo figlio maschio del Duce, Benito Albino Mussolini. La donna e il ragazzo furono entrambi internati in manicomio, trattati come folli ma in realtà veri prigionieri politici (sulla vicenda è basato anche il film del 2009 di Marco Bellocchio, Vincere). «La Lettura» è stata a Venezia con l’autore per visitare i luoghi del romanzo, ambientato in Laguna (ma anche a Milano e a Mombello, in Brianza), dove si consumò il destino di Ida.
Dalla Torre dell’orologio, la vista su piazza San Marco è privilegiata. Lassù, il 15 giugno 1934, nel libro un gruppo di militari che si sono uniti a una cospirazione antifascista sta per compiere un attentato contro Mussolini e Hitler: sono l’ex commissario Siegfried Sauer, il suo compare Mutti (tedeschi), il cecchino ungherese Sander Baraly e Livio Sarpi. L’occasione è perfetta: è il primo incontro tra i due tiranni, che appariranno di fronte a mezzo milione di persone.
«Tra il 1934 e il 1944 – spiega Massimi – Hitler e Mussolini si sono incontrati 17 volte. Era stato Hitler a chiedere di essere ricevuto, ma Mussolini lo invita a Venezia, simbolo della resistenza italiana agli austro-ungarici, e non a Roma: è la prima di una serie di umiliazioni. In quel momento, Hitler è ancora l’“apprendista”, si sta ispirando al leader fascista, che vuole mostrargli il suo potere. Costretto in abiti civili, il Führer viene messo alla quinta finestra delle Procuratie, di lato all’Ala napoleonica del Museo Correr, dove non può essere visto da tutti. Ma può assistere al trionfo di Mussolini, che invece è affacciato dal balcone, al centro».
Gli attentatori salgono sulla Torre dell’orologio per distrarre la folla facendo suonare la campana «dei due mori», mentre il cecchino – appostato sulla cupola della Basilica di San Marco – è pronto a colpire. Nessuno di loro si aspetta di non vedere Hitler accanto al Duce: l’attentato fallisce.
I mori (un vecchio e un giovane) che svettano sulla Torre, inaugurata nel 1499, sono alti più di due metri e suonano la campana da cinquecento anni. Il vecchio inizia a battere due minuti prima dell’ora precisa; il giovane è puntuale: rappresentano il tempo passato e quello futuro. La Torre è la prima tappa di questo tour letterario con l’autore: per 450 anni, l’orologio ha funzionato grazie al temperatore, un uomo che viveva nei tre piani angusti dove si trova il suo meccanismo. L’ultimo temperatore ha lavorato lì fino al 1998.
Dopo il fallito attentato, i ribelli si ritrovano, per una serie di eventi, a intercettare nella Laguna il motoscafo del Duce. Inizia un inseguimento che li porta all’isola di San Clemente, dove ad attendere il despota c’è una figura in camice bianco. Un’ora più tardi, il volto di Mussolini che riparte da quel luogo è scosso. Cosa c’è sull’isola? E perché l’uomo più potente d’Italia l’ha raggiunta nella notte?
Oggi San Clemente è un’isola privata: ospita un hotel di lusso, e chi non è cliente può accedere solo per vedere (su prenotazione) la chiesa omonima, un gioiello del 1131. Insieme con l’autore, «la Lettura» ha il permesso di vistarla: dal 1873 l’isola è stata la sede del Manicomio centrale femminile veneto, poi diventato misto nel 1935, e infine chiuso nel 1992. Di quel passato non restano quasi tracce. Ma è qui che venne rinchiusa Ida Dalser.
Nata nel 1880 a Sopramonte, nel Trentino allora austriaco, Dalser è stata una donna dalla mentalità imprenditoriale. «Eredita una dote da una famiglia di Milano per cui aveva lavorato – racconta Massimi – e la investe nella sua formazione: va a Parigi a studiare tecniche di trattamento del corpo, all’epoca rivoluzionarie, e lì apre un atelier come estetista. Diventa ricca, poi torna a Milano dove inaugura una nuova boutique in Galleria Vittorio Emanuele II». Dalser si promuove girando le redazioni dei giornali per farsi pubblicità: è così che conosce Mussolini, all’epoca direttore all’«Avanti!». Tra loro nasce una relazione passionale, testimoniata da fiumi di lettere: «Ti ho nel sangue, mi hai nel sangue», le scriveva il futuro Duce. E lei perde tutto il suo denaro per lui e per aiutarlo e finanziare «Il Popolo d’Italia». Nel 1915 nasce Benito Albino, a cui Mussolini dà il cognome: i due non si sposano in modo canonico, ma al Comune di Milano firmano una dichiarazione ufficiale in cui si attesta che «la famiglia Mussolini era composta dalla moglie Ida Dalser e da un figlio», scrive Massimi nel romanzo. Questo le permetterà di ricevere un sussidio militare.
Ma Mussolini in quel periodo sta anche con un’altra donna. Prosegue l’autore: «A un certo punto disconosce Ida e, un mese dopo la nascita di Albino, sposa Rachele, che era già la sua concubina, da cui aveva avuto la prima figlia, Edda. Quando Dalser capisce che lui la sta estromettendo dalla sua vita, si vendica e va a raccontare questa storia ai giornali: scrive all’allora direttore del “Corriere”, Luigi Albertini, e persino al Papa. Albertini la aiuta facendole avere soldi, fondi del quotidiano destinati alla beneficenza, per il bambino, ma si rifiuta di pubblicare le sue richieste: Dalser avrebbe voluto domandare al popolo un aiuto per il mantenimento del figlio del Duce (il carteggio tra lei e Albertini è stato raccolto in Mussolini ha deciso di internarmi col piccino». Lettere di Ida Dalser a Luigi Albertini 1916-1925; a cura di Lorenzo Benadusi, Fondazione Corriere della Sera). Poi ottiene contro il Duce un’ingiunzione dal tribunale, dato che non pagava più il mantenimento del figlio, che gli arriva a Montecitorio. Tutti sapevano, lo scandalo era lì, a portata di mano». Per farla tacere, iniziano le reclusioni: prima a Pergine (Trento), poi a Venezia. Anche la vita di Albino fu terribile: «Fin da piccolo, si vanta di essere figlio del Duce – dice l’autore —; poi gli viene cambiato il cognome in Bernardi, dal padre adottivo; lo costringono a entrare in Marina, a La Spezia, e lo spediscono nei mari del Sud. Un finto telegramma, nel 1935, gli annuncia la morte della madre: un pretesto per rimpatriarlo e mandarlo nel manicomio di Mombello. Ida muore convinta che fosse spirato in un naufragio, come le riferiscono».
Ida Dalser muore a San Clemente, per un ictus, a 57 anni. È il 1937. Un anno prima del decesso, scriveva al Duce: «Mentre io sono lontana, prigioniera in un volgarissimo manicomio, sottoposta alla fame, alle torture... tu non hai mai sofferto per l’amore, tu hai colto dovunque, senza scrupoli, col diritto del più forte». Un tormento che non le darà mai pace. Del corpo non si è più saputo nulla. Anche Albino muore in manicomio: a ucciderlo sarà una terapia insulinica (si induceva il coma per «ammorbidire» le resistenze psichiatriche). Anche il suo corpo sparisce.
Con l’autore, «la Lettura» si sposta in un’altra isola, anche questa ex sede di un manicomio (maschile): San Servolo. Oggi qui c’è il Museo del manicomio; una farmacia (nata nel 1716) e un Archivio con oltre 50 mila cartelle cliniche di ex pazienti, e alcune lettere che Dalser inviava al suo ex amante. Commenta Massimi: «Dalla fine dell’Ottocento inizia il “grande internamento”: tra il 1927 e il 1941 gli internati manicomiali d’Italia passarono da 40 mila a 65 mila. Bastava essere oziosi, dediti all’alcol o facinorosi, esuberanti, anarchici, per venire rinchiusi. E per le donne era peggio: per il fascismo erano madri e mogli; tutto il resto era devianza. Venivano rinchiuse se considerate isteriche, svogliate, interessate a cose a cui non dovevano, come la politica o il sesso. Persino la violenza sessuale subita era causa di confino. E spesso erano i mariti a denunciarle. Queste donne erano chiamate le malacarne». Le isole della Laguna, nella storia, sono state usate per emarginare: matti, appestati, lebbrosi, ma anche i morti e i monaci. La chiamavano la «cintura sanitaria di Venezia».
In Le furie di Venezia i protagonisti inseguono l’infelice storia di madre e figlio: prima provano a liberare Dalser, fallendo. Poi, anni più tardi, la storia di Albino viene scoperta da un commissario di Milano, Fausto Armeni, che lo trova a Mombello. Ancora una volta, il gruppo di antifascisti prova a salvare una delle vittime di questa vicenda, e a piegare il Duce di fronte a uno scandalo. In una trama che parte da fatti storici (Massimi spiega che i documenti citati nel libro sono trascritti dagli originali, refusi compresi) e che si annoda a ritmo e a intrighi del giallo, tra scene di spionaggio e tradimenti. «Il romanzo storico è il genere di oggi e di domani – aggiunge l’autore —. Il futuro del romanzo storico è nel passato, ed è il genere della nostra epoca, che è smemorata, è l’epoca della chiavetta Usb, del cellulare con migliaia di foto. E quando c’è tutto questo rumore, le cose si perdono. Viviamo in un eterno presente, i social sono l’attimo; siamo, avrebbe detto Friedrich Nietzsche, schiavi dell’attualità».
C’è ancora una tappa in questo tour letterario. È l’isola di San Michele, o «isola dei morti», dove ha sede il cimitero dei veneziani. Un luogo surreale, abitato solo dai defunti, dove si incontrano anche tombe illustri, quella di Igor Stravinskij o del poeta Iosif Brodskij. Il corpo di Ida Dalser, mai ritrovato, potrebbe essere qui, spiega Massimi. Che conclude: «Ho scritto Le furie di Venezia per dare giustizia a questa storia. Il titolo è un richiamo a quegli anni furibondi, ai tanti “furiosi”, fuori di senno, incontrati dai miei protagonisti. Poi ci sono le figure delle Furie, che vendicano i deboli, i torti. I miei personaggi incontrano un torto, una grande ingiustizia, e decidono di vendicarla. E non si fermeranno davanti a nulla».