La Lettura, 18 agosto 2024
I sanatori nell’arte del Novecento
A cent’anni dalla pubblicazione della Montagna incantata, o meglio Montagna magica, visto che la traduzione corretta si è ormai imposta su quella che aveva conquistato il nostro immaginario (e che continueremo segretamente ad amare), il sanatorio resta un tópos imprescindibile della letteratura, estendendo la sua influenza anche alla nostra epoca ormai priva – almeno in Occidente – di tubercolosi, grazie alle sue iterazioni ospedaliere o manicomiali. Ma per arrivare al sanatorio, e a comprendere la sua influenza nell’immaginario moderno e contemporaneo, occorre partire, appunto, dalla tubercolosi. Si ritiene che il micobatterio che la cagiona abbia almeno 150 mila anni, mentre le prime prove della sua presenza negli umani risalgono a circa 9 mila anni fa, almeno stando ai resti di una madre e di un bambino ritrovati nell’antica città di Atlit Yam, un sito sommerso del neolitico non distante dalla città costiera di Haifa, in Israele; le prime fonti scritte che menzionano la malattia risalgono a 3.300 e 2.300 anni fa, ritrovate rispettivamente in India e Cina.
È tuttavia più di recente, nell’Ottocento, che la tubercolosi acquista il carattere che in qualche modo conserva ancora oggi, quella di «malattia artistica» – e in particolare «malattia letteraria» – per eccellenza. La sovrarappresentazione della tisi nelle arti si deve anzitutto al fatto che moltissimi letterati, artisti e musicisti se la presero veramente, non di rado morendo giovani a causa di essa. La lista è lunga e va da Anton Cechov a Guido Gozzano, dalle sorelle Anne e Charlotte Brontë a Novalis, da John Keats a Franz Kafka, da Niccolò Paganini a Giovan Battista Pergolesi, da Amedeo Modigliani fino a George Orwell, se si vuole sforare su personaggi nati nel Novecento; anzi, come ha ricordato lo scrittore Marco Archetti in un suo saggio in merito, la contrassero pure Dashiell Hammett (sotto le armi) e Charles Bukowski (ma i medici di Beverly Hills non la seppero diagnosticare essendo una «malattia da poveri»).
Se a tutto questo si aggiunge la credenza popolare che associava la tubercolosi al vampirismo – c’era di mezzo il sangue, si diveniva pallidi ed emaciati, i familiari dei malati si ammalavano a loro volta... – e quella, diffusa negli ambienti artistici, che la malattia causasse momenti di euforia, la cosiddetta spes phthisica, in cui si sarebbero verificati particolari picchi di consapevolezza e creatività, appare logico che la malattia si sia guadagnata una certa reputazione, passando così dagli autori ai personaggi. La lista, anche escludendo comprimari e comparse, risulta lunga: la Silvia di Giacomo Leopardi, la Mimì de La bohème di Giacomo Puccini, Violetta de La traviata di Giuseppe Verdi (che è poi la trasposizione librettistica da parte di Francesco Maria Piave della Marguerite Gautier della Signora delle camelie di Dumas figlio), il piccolo Ilja dei Fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij, la Fantine di Victor Hugo, i personaggi di Blai Bonet, e naturalmente l’Hans Castorp della Montagna magica (in effetti, tutti o quasi i personaggi della Montagna magica, dato che l’intero romanzo si svolge in un sanatorio di Davos, il Berghof).
Un’influenza, quella della tisi, così importante e di lungo spettro da arrivare anche al cinema, nell’arte, nella musica rock, nei videogiochi e nei fumetti: troviamo una Ingrid Bergman malata di tisi nelle Campane di santa Maria, mentre L’angelo ubriaco di Akira Kurosawa racconta la storia di un dottore ossessionato dalla malattia; Claude Monet ritrasse sua moglie morta di tisi nel proprio letto ed Edvard Munch ne fece uno dei suoi temi preferiti, con dipinti come La madre morta o La fanciulla malata. Si parla di tisi nella canzone T.B. Sheets di Van Morrison e in T.B. Blues di Jimmy Rodgers; la ritroviamo nell’anime e manga La rosa di Versailles (vero titolo di quello che da noi è il celebre Lady Oscar) di Riyoko Ikeda, come in Tuberculosis del «dio dei manga» Osamu Tezuka; e persino nel videogioco Red Read Redemption II, dove ne è affetto il protagonista Arthur Morgan.
La tubercolosi non avrebbe tuttavia avuto un’influenza così grande nelle arti senza il suo luogo d’elezione, fattosi poi luogo letterario: il sanatorio. Oltre alla Montagna magica, che porta smaglianti i suoi cent’anni e pare aver solo cominciato a influenzare la letteratura, visto l’attuale ritorno dei romanzi filosofici, dei romanzi-saggio e dei romanzi costituiti in gran parte di dialoghi (e quello di Mann è tutte le tre cose assieme), vale la pena ricordare Padiglione di riposo del Nobel spagnolo Camilo José Cela, ripubblicato proprio quest’anno da Utopia, piccolo capolavoro di frammenti di vita sospesi tra il tempo, il mondo delle idee e la non-esistenza, e l’autobiografia di Thomas Bernhard – cinque brevi romanzi, ognuno un capolavoro (L’origine, La cantina, Il respiro, Il freddo, Un bambino), che a settembre torneranno in tascabile per Adelphi – in cui il periodo della malattia giovanile, e il tempo trascorso nel sanatorio di Grafenhof, hanno una parte centrale, anche nello sviluppo della poetica dell’autore e del suo rapporto con la morte (a braccetto, ma con un sorriso beffardo sul volto di entrambi).
Eccoci allora al segreto del sanatorio come iperluogo letterario. Nel sanatorio, semplicemente, si ristà: si può vivere o morire, i quasi sani possono avere il letto vicino ai quasi morti, quello dato per guaribile può avere una ricaduta, quello dato per morto può riprendersi all’improvviso (capita al giovane Bernhard, ma anche al giovane Castorp, sebbene ciò lo avvii ad ancor più tragico destino), e intanto si aspetta. Si può aspettare in molti modi. Come Castorp, facendo ricche conversazioni, passeggiando, innamorandosi e diventando adulti; come il giovane Bernhard, mal sopportando i vicini di letto che tossiscono, soffiano e gorgogliano, e cercando di venire a capo che, sì, la tua vita potrebbe esser tutta lì; o come i personaggi di Cela, che attraverso l’indagine del proprio io profondo arrivano a vaticinare i destini d’Europa.
Si aspetta lì, in quel tempo sospeso, tra la vita e la morte. La rottura delle barriere tra i generi, oggetto del dibattito letterario contemporaneo, ha portato al centro della scena il concetto di «spazio liminale» (uno per tanti, l’interzona di William S. Burroughs, che ci conduce da mondi reali ad altri deliranti). Ma che cos’è in fondo il sanatorio, che oltre a essere separato dal mondo dei sani dalle mura lo è anche dal collocarsi in alta montagna, se non lo «spazio liminale» per eccellenza?
Varrà la pena ricordare che anche lo svizzero Monte Verità, modello per le comuni hippy a venire, i «festival trasformativi» e tutto l’universo dei ritiri psichedelici di oggi, pur non essendo un ritiro per malati ma per persone sane, s’ispirava nell’organizzazione a un sanatorio e – celebre presso l’intellighenzia di lingua tedesca – costituì uno dei modelli a cui si ispirò Thomas Mann per il Berghof della Montagna magica. Il quale presenta un numero di ospiti strambi superiore alla media di un sanatorio ma del tutto normale al Monte Verità, che aveva tra i suoi habitué gente come Carl Gustav Jung, Erich Maria Remarque, Hermann Hesse, Isadora Duncan o Max Brod.
Il sanatorio, in letteratura, diventa così spazio eletto di trasformazione e iniziazione, di crescita come di accettazione, di catabasi come di passaggio diretto a mondi altri, e non c’è allora da stupirsi se, debellata che fu la tubercolosi in Occidente, gli scrittori abbiano guardato ad altre «istituzioni totali»: il manicomio, come in Qualcuno volò sul nido del cuculo di Ken Kesey (ma già anche nell’Uomo senza qualità di Robert Musil); l’ospedale militare, come in 2666 di Roberto Bolaño; la comunità di recupero, come in Infinite Jest di David Foster Wallace; la casa di riposo, come nel Cornetto acustico di Leonora Carrington o nell’Atlante delle nuvole di David Mitchell. Tirandola un po’ per i capelli si potrebbe inserire nel novero degli iperluoghi letterari del contemporaneo, che non incidentalmente tendono a sovrapporsi alle istituzioni totali descritte da Michel Foucault, anche il convento (Il nome della rosa di Umberto Eco con le sue innumerevoli imitazioni), il carcere moderno (rieccolo in 2666, ma anche nel Miglio verde di Stephen King), il collegio (la Hogwarts di Harry Potter, naturalmente, ma pure buona parte del filone della dark academy). Tutti luoghi separati dal mondo esterno in cui può capitare di entrare in un modo e uscire del tutto differenti, come accadeva un tempo a chi si perdeva in certe selve oscure...
Ma alla fine, in un modo o nell’altro, si guarda sempre al sanatorio come modello primo dell’iperluogo (e comunque iperluogo più potente, dato che si può entrar vivi e uscir morti, o entrar morituri e uscir pimpanti) e la letteratura contemporanea non ha ancora smesso di farlo, se è vero che una delle novità letterarie più attese, il primo libro scritto da Olga Tokarczuk dopo il Nobel, Empuzjon, uscito in patria a giugno e ancora non tradotto da noi, è ambientato proprio in un sanatorio per malati di tubercolosi.