La Lettura, 18 agosto 2024
Cent’anni fa uscì La montagna incantata di Thomas Mann
Partiamo dal titolo italiano, perché la questione è tutt’altro che una quisquilia accademica, e riguarda semmai il nucleo di significato più profondo dell’opera. Nel 2010, quando Renata Colorni ha pubblicato nei Meridiani la sua splendida traduzione di Der Zauberberg, accompagnata dal monumentale commento di Luca Crescenzi, ha intitolato il capolavoro di Mann La montagna magica (The Magic Mountain suonano del resto il titolo inglese, e La montagne magique quello francese), in conseguenza di un ragionamento ineccepibile. Ne va della comprensione esatta del significato del luogo in cui si svolge il romanzo, il sanatorio Berghof di Davos, e della stessa percezione del lungo tempo (sette anni) che vi trascorre il protagonista, Hans Castorp. Ebbene, quando definiamo una cosa «incantata», noi supponiamo che questa cosa abbia subìto una specie di sortilegio, di trasformazione che proviene da un potere esterno. Una maga dell’Ariosto, tanto per dire, può «incantare» una fontana, o un bosco, facendone degli strumenti della sua volontà o del suo capriccio. Una cosa «magica», al contrario, lo è perché esercita il suo potere.
Detto tutto questo, le tradizioni e le abitudini sono fiumi melmosi, dei quali è molto difficile cambiare il corso, e così come sappiamo bene che Dante non ha mai pensato di scrivere un poema intitolato La divina commedia, si può accettare di celebrare il centenario di quel supremo capolavoro dello spirito europeo che per convenzione continuiamo a chiamare La montagna incantata.
Dovendo indicare in poche righe quello che mi sembra l’elemento principale del perdurante fascino di questo romanzo, è sul suo protagonista che voglio puntare l’attenzione. Hans Castorp, l’ingegnere navale di Amburgo, il «sincero e riottoso figlio della vita», non è, come avverte Mann nel Prologo, e ribadisce nella prima frase del romanzo, che «un giovane uomo come tanti». Si potrebbe, in effetti, scambiare la sua ricettività, unita alla lentezza con la quale la sua coscienza elabora ciò che percepisce, come una sostanziale mancanza di carattere. Se lo confrontiamo alle indimenticabili figure umane che popolano il Berghof, dobbiamo ammettere che è proprio lui, «semplice e ignaro», a suscitare l’esuberanza e la vitalità delle persone che incontra, tanto che possiamo affermare che La montagna incantata ancora oggi è l’analisi più complessa e geniale mai tentata in letteratura sull’influenza che gli esseri umani subiscono dai loro simili.
Che si tratti di Lodovico Settembrini o di Madame Chauchat (per citare solo due tra i più memorabili personaggi del romanzo), in confronto all’eroe di Mann tutti possono vantare un grado maggiore di esperienza della vita, di coscienza di sé e del mondo, di immaginazione. Eppure, nella sua apparente passività, Hans è tutt’altro che una replica del Frédéric Moreau di Flaubert, che riesce a distinguere il futile dall’essenziale solo quando si è fatto troppo tardi e la vita è praticamente finita.
Il libro di Mann, così ricco di digressioni saggistiche e lunghi dialoghi, è sempre avvincente proprio perché il suo protagonista non smette mai di imparare, nemmeno quando sogna o non riesce a decifrare le apparenze più evidenti. Se al suo centro scorgiamo una specie di vuoto, il genio di Mann non si limita a colmarlo, come nello schema classico della tabula rasa da riempire di contenuti, ma lo trasforma in una specie di energia, di potenza cognitiva. Perché è vero che Hans è un uomo «come tanti», ma questa diagnosi esatta non lo esaurisce, dal momento che «non ogni storia può capitare a chiunque».
Le due affermazioni, ravvicinate nel Prologo, formano un paradosso sconcertante. Mann torna su questo punto fondamentale anche nell’ultima pagina del romanzo, al momento di congedarsi da Hans, rivolgendosi direttamente a lui: «È stata comunque la tua storia; e poiché è capitata a te, in qualche modo dovevi averne la stoffa».
Ma com’è possibile essere nello stesso tempo «come tanti» e avere una storia che non potrebbe capitare a qualcun altro ? Che razza di unicità è quella che emerge dalla mancanza di tratti distintivi evidenti? In altre parole, è la mancanza di destino ad attribuirci un destino e la «stoffa» per seguirlo fino in fondo? Forse solo Franz Kafka, morto lo stesso anno in cui venne pubblicata La montagna incantata, si era spinto così lontano nel tentativo di dare una forma narrativa credibile a questo aspetto della condizione umana che è come il sigillo della modernità. Per molto tempo, tra i grandi maestri e gli innovatori del Novecento, Mann è stato considerato il più classico, il più legato alla grande tradizione del romanzo ottocentesco. Forse oggi, relegati al passato tanti clamori estetici e ideologici, siamo più in grado di apprezzare la sconvolgente novità del suo capolavoro.
Lui stesso ce ne dà una definizione insieme oscura e illuminante, come si addice alle intuizioni supreme: si tratta di una «storia ermetica», e dunque di un ponte tra il mondo dei vivi e quello dei morti, tra i fantasmi della veglia e quelli del sogno. Non c’è età della vita in cui una rilettura non si trasformi in una nuova scoperta. Perché ha ragione Mann: siamo tutti uguali, ma proprio per questo nessun altro potrebbe vivere la nostra storia.