La Lettura, 18 agosto 2024
Le bolle culturali
Qualche giorno fa, travolto dal profluvio di notizie sul concerto milanese di Taylor Swift e poi sull’annullamento delle tappe viennesi per il pericolo di attentati, mi sono improvvisamente accorto di una cosa. Leggevo di come la cantante può cambiare l’economia di uno Stato o influenzare le elezioni americane: ma io, di un personaggio così sensazionale, non conoscevo sostanzialmente niente. Sì, sapevo che esisteva una famosa cantante pop con quel nome: ma non avevo mai ascoltato una sua canzone, almeno sapendo che lo fosse; e nemmeno conoscevo la sua faccia. Lo giuro; e lo giuro a malincuore, perché so che finisco per fare la figura del parruccone snob.
A consolarmi, però, è stato un pensiero collegato a un’esperienza di qualche tempo prima, durante un seminario che ho condotto presso un’accademia di arti visive. Avevo chiesto ai duecento ragazzi che mi ascoltavano se sapevano dirmi chi avesse vinto il Festival di Cannes terminato appena 48 ore prima. La domanda era stata accolta da un imbarazzato silenzio. Non è che mi aspettassi che mi rispondessero in massa: il vincitore della Palma d’oro di quest’anno è Sean Baker, non certo un autore famoso. Ma l’unica studentessa che provò a rispondere, coraggiosa quanto fallace, aprì uno scenario inatteso. Lei, infatti, buttò lì: «La Cortellesi?». Cosa c’entrasse il suo film, in giro da ottobre, con quelli della Croisette rivelava una insospettabile confusione. Il silenzio prese allora un altro significato. Emerse lentamente che quella platea di giovani (studenti di arti visive...) avevano del festival di Cannes la stessa idea generica che avevo io di Taylor Swift. E cioè, di qualcosa di importante che esiste là fuori nel mondo, ma del quale, nei fatti, ciascuno di noi – nei rispettivi casi – non avrebbe saputo dire alcunché.
Mi sono chiesto come sia possibile una situazione del genere e mi sono dato due risposte. Da una parte il pensiero correva alle idee alte di Umberto Eco, quando parlava, a causa dell’avvento di internet, della perdita di un’«enciclopedia comune», cioè di una base di conoscenze condivise come fondamento di ogni società umana. Dall’altra, il mio pensiero andava a certi ricordi adolescenziali, quando portavo a casa gli Lp dei Beatles e dei Rolling Stones, che suonavo da mattina a sera nella mia stanza per la disperazione dei miei genitori. I quali si vendicavano (per così dire) quando si ascoltava la radio o si guardava la Rai, dove invece impazzavano Claudio Villa e Domenico Modugno (di cui il 6 agosto abbiamo ricordato i trent’anni dalla morte), che io detestavo come rappresentanti della canzone italiana tradizionale.
Il fatto concreto, però, era che sia io che loro condividevamo la medesima esperienza, magari controvoglia. E che proprio questa condivisione produceva il conflitto, che in quegli anni si estese ben oltre i gusti musicali. Mentre oggi i casi appena citati sembrano suggerire che la condivisione è stata sostituita da una convivenza di universi paralleli dentro i quali un gruppo può condurre un’esistenza del tutto ignara di quella di un altro gruppo. Il che crea anche la ben nota situazione per cui sui social non leggiamo le cose che non ci piacciono, ma solo quelle di chi conferma le nostre idee.
Sempre restando nel campo dei ricordi musicali, mi viene in mente il 1979, l’anno in cui la Sony mise in commercio il Walkman. Ve lo ricordate? Il Walkman è il prototipo del device che consente di personalizzare l’ascolto. Da lì in poi, passando per i DiscMan, gli iPod, cuffie e cuffiette Blue Tooth, Air Pods e quant’altro, da più di quarant’anni la musica si è, per così dire, privatizzata e ciascuno si fa la sua colonna sonora quotidiana personale. L’ironia è che il Walkman non era stato pensato a quel fine, ma prevedeva due uscite audio per sentire la musica in coppia; e un tasto per abbassarne il volume e parlarci sopra. Il fatto è che la tecnologia e l’antropologia interagiscono dialetticamente. Spesso la commercializzazione di un nuovo prodotto genera un effetto imprevisto rispetto alle intenzioni dell’inventore. In questo senso è davvero innegabile che un’enciclopedia comune si stia dissolvendo in una galassia di offerte dell’industria culturale, in un modo non dissimile dalla struttura degli scaffali di un supermercato, dove vai a comprare solo quello che ti interessa o quello che ti serve.
È ciò che, per esempio, sta succedendo con lo streaming e le serie, secondo un’altra esperienza personale. Fino a nemmeno troppi anni fa, al centro del business stava il cinema in sala, a cui a cascata si connettevano gli altri mercati: tv, home video, eccetera. Un film lo si lanciava lì, secondo una strategia commerciale che includeva anche i grandi festival: ed è probabile che allora gli studenti di quell’accademia avrebbero saputo rispondere alla mia domanda su Cannes. Ma con l’avvento delle piattaforme tutto è cambiato, producendo una situazione paradossale che sperimento ogni giorno. Per questioni anche professionali, parlo con amici e colleghi di quello che vediamo. Solo che è diventato sempre più difficile condividere un’opinione perché ormai ciascuno guarda cose diverse. Finisce così che ho amici Sky, amici Netflix, amici Paramount+, amici RaiPlay, Amazon Prime, AppleTv... Nell’impossibilità umana di vedere tutto quello che viene prodotto, finisce che ciascuno guarda quello che può a seconda dell’abbonamento che ha scelto e molto spesso ignora del tutto quello che passa su un altro. Il che produce uno scambio intellettuale uguale a zero; e non è una buona cosa, perché è solo dal contrasto e dal dissenso che si crea un progresso (e sarà anche per questa ragione che le serie vivono di remake e di revival).
D’altra parte, dato che le piattaforme impostano la loro produzione sul profiling, cioè sul replicare certi trend di successo, vedere certe cose implica che se ne vedranno altre simili nel futuro. Un circolo vizioso che si autoalimenta senza che nessuno lo metta in discussione. Letteralmente.
Un ultimo ricordo. Sarà stato verso la fine degli anni Novanta, comunque agli albori dell’era digitale. Fui contattato da un produttore che poi ebbe anche un ruolo in un governo Berlusconi. Allora ero considerato un regista emergente (e sicuramente più «giovane»). Il produttore, più che farmi una proposta concreta, mi illustrò uno scenario che a sua volta gli era stato spiegato dai capi di una grande compagnia telefonica. Mi disse che in un tempo a venire non molto lontano i cellulari, che allora funzionavano solo in quanto telefoni, avrebbero potuto fare molte più cose, integrandosi con la rete. Per esempio, ci si sarebbero potuti vedere dei filmati perché i display dei telefoni sarebbero diventati come un piccolo schermo. Schermo di cui erano già dotati i computer portatili in circolazione in quel momento. Insomma, per quel nuovo mercato ci sarebbe stato presto bisogno di «contenuti» (fu la prima volta che sentii quella parola). Quindi lui contava su gente come me per produrli. Di cosa concretamente si trattasse non lo sapeva nemmeno lui, ma la strada, diceva, era segnata. E lì si lanciò con sincero entusiasmo in questa descrizione: «Pensa per esempio a un treno in cui ciascuno è connesso e può vedere il suo contenuto per conto proprio, con le cuffie in testa, completamente autonomo. E può usare il tempo di un Roma-Milano per vedere quello che vuole...».
Mentre visualizzavo la scena, la mia perplessità era pari al suo entusiasmo. Pur pensando a certe esperienze di lunghe ore passate con noiosi compagni di viaggi ferroviari, la scena di decine di persone silenziose, fisicamente vicinissime e al contempo remote l’una all’altra, mi creava un genuino disagio. Naturalmente, è quello che succede oggi su ogni treno dell’Alta Velocità.
Non solo aveva ragione lui, ma quella conversazione significava che c’era già qualcuno pronto a orientare quello sviluppo per fare soldi. Più di tutto, di quella scena profeticamente evocata, mi colpisce la metafora: non siamo tutti così, oggi? Gomito a gomito in sedili sempre più stretti ma sempre più lontani dal nostro vicino, perfetti sconosciuti, mentre, ignari e ignavi, corriamo a 300 all’ora verso il metaverso che ci aspetta.