Corriere della Sera, 18 agosto 2024
Le ferite di San Francesco
All’indomani della morte di Francesco d’Assisi (3 ottobre 1226), il suo successore alla guida dell’ordine, frate Elia, indirizzò una lettera circolare a tutti i confratelli, il cui nucleo principale è racchiuso in queste frasi: «E ora vi annuncio una grande gioia, uno straordinario miracolo. Non si è mai udito al mondo un portento simile, fuorché nel figlio di Dio, che è Cristo Signore. Qualche tempo prima della morte, il fratello e padre nostro (Francesco) apparve crocifisso, portando impresse nel suo corpo le cinque piaghe, che sono veramente le stigmate di Cristo. Le mani e i piedi erano trafitti come da chiodi penetrati dall’una e dall’altra parte, e avevano delle cicatrici del colore nero dei chiodi. Il suo fianco appariva trafitto da una lancia ed emetteva piccole gocce di sangue».
Altre informazioni permettono di collocare a due anni prima la recezione delle stigmate da parte di Francesco, più esattamente al 14 settembre 1224, ottocento anni fa, durante un digiuno di quaranta giorni presso l’eremo della Verna. Anche Dante registra l’avvenimento con ammirazione nell’undicesimo canto del Paradiso, in una terzina giustamente famosa: «Nel crudo sasso intra Tevere e Arno/ da Cristo prese l’ultimo sigillo,/ che le sue membra due anni portarno».
In realtà, nonostante le pretese di frate Elia, episodi di stigmatizzazione si erano già verificati a partire dall’inizio del XIII secolo, a seguito di pratiche di autocrocifissione (simili probabilmente a quelle ancora in uso nelle Filippine in occasione della Settimana Santa) o a forme di ascetismo estremo che portavano ad analoghe conseguenze. In quei primi momenti, l’atteggiamento della Chiesa rimase ambivalente: se abbiamo notizia della condanna come eretico di un inglese crocifissosi intorno al 1222, altri stigmatizzati vennero da subito considerati santi, come Pietro il Converso, un laico di Villers nel Brabante dedito a pratiche di ascetismo estremo, o Maria di Oignes, una beghina francese morta nel 1213 (sulle prime manifestazioni di questo fenomeno uno studio recente è quello di Carolyn Muessig, The stigmata in medieval and early modern Europe, Oxford University Press, 2020).
L’ispirazione per simili pratiche era offerta da un passo della Lettera ai Galati di Paolo, laddove l’apostolo intima con forza: «D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo». In realtà, il termine greco stigma, traslitterato in lettere latine da Girolamo nella traduzione vulgata della Bibbia, indica piuttosto un marchio, un segno di riconoscimento, più che una ferita o la sua cicatrice; nell’esegesi dei padri della Chiesa, quindi, veniva inteso in senso prevalentemente metaforico, come partecipazione spirituale alle sofferenze del Signore.
Questa interpretazione si mantenne anche nell’ambito monastico latino; tuttavia, l’emergere di una diversa sensibilità nel mondo laicale, meno intellettualistica e maggiormente legata alla dimensione materiale dell’esperienza umana, spinse verso una interpretazione più letterale e fisica di questi «segni». La stessa vicenda di Francesco è legata alla contemplazione delle immagini di Cristo crocifisso e dei suoi patimenti, della cui iconografia i francescani furono i massimi promotori a partire dal XIII secolo.
L’iconografia delle stigmate di Francesco, però, ne associa la comparsa sul corpo del santo all’azione di un Serafino (un angelo della schiera celeste più prossima a Dio), apparso in visione in un momento del digiuno e preghiera sulla Verna.
Come ha mostrato Chiara Frugoni (1940-2022) in uno studio ancora fondamentale (Francesco e l’invenzione delle stimmate. Una storia per parole e immagini fino a Bonaventura e Giotto, Einaudi, 1993) si tratta della conflazione di due diversi episodi della vita di Francesco, alla cui origine sta il racconto del primo biografo, Tommaso da Celano (1190-1265 circa): durante una visione, non precisamente datata, ma in un momento distinto da quello dell’episodio della Verna, apparve al santo appunto un Serafino, dotato di sei ali e con mani e piedi inchiodati sulla croce. Francesco non comprese cosa quella visione significasse e solo successivamente, mentre stava riflettendo sulla «novità di quella visione – così il biografo – i segni dei chiodi cominciarono ad apparire sulle sue mani e sui suoi piedi, proprio come li aveva visti poco prima sull’uomo crocifisso sopra di lui».
A differenza delle immagini poi divenute canoniche, nel racconto di Tommaso non è il Serafino a imporre i segni della croce su Francesco, bensì è la profonda meditazione spirituale di quest’ultimo a provocarne le manifestazioni visibili sul proprio corpo. Sta qui esemplarmente il nodo per valutare il fenomeno delle stigmate e la relativa prudenza con cui la Chiesa approccia questi fenomeni: autosuggestione patologica o effettiva esperienza mistica, di contatto immediato con la realtà divina, che provoca anche, ma non necessariamente, manifestazioni di alterazione psichica e fisica?
La risposta non è facile, come mostrano le vicende legate al più famoso caso di stigmate del Novecento, quello del frate francescano cappuccino Pio da Pietrelcina, dapprima condannato nel 1923 dal Sant’Uffizio a seguito di alcune perizie mediche e psichiatriche (tra cui quella di padre Gemelli, appartenente a un diverso ramo della famiglia francescana), per essere poi progressivamente riabilitato sino all’atto ufficiale di Paolo VI nel 1964 e alla canonizzazione nel 2002 da parte di Giovanni Paolo II.
Tuttavia, la polemica non si è mai sopita, e le stigmate sono state l’oggetto principale delle contestazioni alla sua figura, dentro e fuori dalla Chiesa cattolica.
Complessivamente, si ha notizia di circa trecento casi di stigmatizzazione nel corso della storia a partire dal XIII secolo, riconosciuti come autentici o meno. Tra i più significativi quello di Caterina da Siena (1347-1380), segnata il primo aprile 1375 dalle stigmate che la consacrarono quale campionessa della riforma dell’ordine dei domenicani e autorevole esempio di autorità religiosa femminile. Nel clima del confronto tra cattolici e protestanti, tipico del XVI secolo, le stigmate furono al centro di un ampio dibattito teologico, che portò a una drastica riduzione del loro significato teologico e spirituale, ancor più revocato in dubbio dall’Illuminismo. Non mancano però significativi esempi più recenti, oltre al già ricordato padre Pio: dalla monaca agostiniana Anna Katharina Emmerick (1774-1824), beatificata nel 2004, nota soprattutto per le conversazioni intrattenute con il poeta romantico tedesco Clemens Brentano (1778-1842) che le pubblicò anni dopo col titolo La dolorosa Passione del Nostro Signore Gesù Cristo; alla laica lucchese Gemma Galgani (1878-1903), che, ricevute le stigmate nel 1899 dopo aver fatto voto di castità e aver avuto numerose visioni, venne proclamata santa da Pio XII nel 1940, nonostante i dubbi, poi ritrattati, del suo confessore sull’autenticità di queste manifestazioni.