Corriere della Sera, 18 agosto 2024
Chicago, capitale politica da Lincoln a Obama
«Chicago è la grande città americana»: cominciava così Norman Mailer il racconto della storica convention democratica del 1968. Più dell’internazionale New York, più della «plastica» Los Angeles: lì, al centro del Paese, al centro delle tre grandi migrazioni americane, quella dei nuovi arrivati dall’Europa, quella degli afroamericani da Sud a Nord, quella dalle aree rurali alle città. A metà tra le due coste, cuore economico del Midwest, centro chiave dell’agricoltura e dell’allevamento e poi capace di prosperare nonostante il declino dell’industria manufatturiera puntando su finanza e turismo. Oggi non c’è grande azienda americana che non abbia una sede qui.
Ma Chicago è anche, se non soprattutto, la capitale politica d’America. Quella che si apre domani è la 26esima convention ospitata in centro, nessun’altra città americana ne ha viste passare tante. Abraham Lincoln durante la prima, nel 1860, Theodore Roosevelt, Herbert Hoover, FDR, Dwight D. Eisenhower: furono tutti «incoronati» candidati qui. E naturalmente Hubert Humphrey, l’ultimo, fallimentare nome scelto nelle «stanze fumose» dai maggiorenti del partito e non dalle primarie, nella tragica estate del ’68 che era cominciata a giugno con l’assassinio del favorito alla nomination, Robert F. Kennedy, e si era conclusa con le manganellate della polizia agli attivisti contro la guerra mentre i notabili democratici erano riuniti all’International Amphitheatre, demolito nel ’99.
Martin Luther King, ucciso anche lui quell’anno, aveva spostato il suo quartier generale in città. Jesse Jackson, che era con lui sul balcone quando gli spararono a Memphis, avrebbe lanciato da qui l’Operation Push e la sua corsa presidenziale; qui è stata eletta la prima senatrice afroamericana, Carol Moseley Braun.
Ma Chicago, la windy city, la città ventosa adagiata sul maestoso lago Michigan, è stata soprattutto per decenni sinonimo di «machine politics», quel sistema di potere nutrito dal clientelismo e dal voto di scambio. Il volto di quel sistema, il «Faraone americano», era Richard J Daley, sindaco democratico dal 1955 fino alla morte, nel 1976 (il Washington Post scrisse che essere stati presenti al suo funerale oceanico era come «essere stati in Cina quando morì il presidente Mao»). Grazie a lui John Kennedy si assicurò l’Illinois: l’affluenza fu così alta che si disse avessero votato anche i morti (leggenda vuole che gli uomini del sindaco girassero i cimiteri per aggiungere nomi alle liste degli elettori).
«The city that works»: la città che lavora, ma anche la città che funziona, era il suo mantra. Debordante, corrotto ma anche amato, presente, molto prima degli show a favore di social media dei politici di oggi, a ogni emergenza: si racconta che si mise a dirigere di persona gli spazzaneve durante la grande tempesta del 1960, e che tenesse una linea telefonica diretta nel suo ufficio per i reclami sulla pulizia delle strade (e forse è una delle sue maggiori eredità, perché ancora oggi Chicago è una città ordinatissima). Tanti degli edifici moderni della metropoli, e il suo aeroporto internazionale, l’O’Hare, furono costruiti durante i suoi anni. Ma fu lui a ordinare alla polizia il pugno duro contro i sessantottini: i «pigs», come i manifestanti chiamavano gli agenti, portarono la guerra in città e sugli schermi di tutta l’America, e furono anche quelle scene di caos ad allontanare i moderati e regalare la Casa Bianca a Nixon. Nella scena cult di The Blues Brothers la Bluesmobile di John Belushi e Dan Aykroyd finisce la sua corsa contro la porta a vetri dell’atrio del Daley Center: il regista John Landis la spiegherà come una punizione postuma per la repressione del ’68.
Epicentro del sessantotto studentesco, la città lo fu anche del reaganesimo negli anni Ottanta, grazie al motore ideologico dei Chicago boys. Alla fine di quel decennio, tornano i Daley: nell’89 viene eletto il quarto dei suoi sette figli, Richard M, che diverrà il primo cittadino più longevo, «regnando» persino più del padre, fino al 2011. Sotto il suo mandato Chicago assiste all’esplodere sul palcoscenico nazionale di Barack Obama, che per le strade del South Side si era fatto le ossa come «community organizer». L’ascesa del primo presidente afroamericano racchiude perfettamente l’anima della città: da una parte l’impegno dal basso, l’attivismo, di cui qui c’è una lunghissima e nobile tradizione, dall’altra la politica ruvida e muscolare. Nel 1996, quando si candidò al Senato dell’Illinois, Obama e il suo team contestarono meticolosamente, una ad una, la validità delle candidature dei suoi avversari, finendo per squalificarli: più chicagoan di così.
La città che si ritrovò festante nella notte di Grant Park, quando nel 2008 Obama celebrò la sua prima storica vittoria, ora si prepara alla grande kermesse democratica, tra le ombre del sessantotto e la gioia e il sollievo per una campagna elettorale che sembrava persa e invece si è riaperta. Tante cose sono uguali – un presidente in carica che ha rinunciato alla nomination, una candidata che non è passata dalle primarie, le proteste contro la guerra – tante sono diverse. Poi c’è Chicago, sempre al centro.