Sette, 17 agosto 2024
Intervista a Carlo Verdone sulla longevità
Immaginatelo su uno dei grandi divani della sua bellissima casa che guarda tetti e monumenti di Roma, gli occhi rivolti a un cielo che già comincia a pensare al tramonto. In fondo quell’appartamento, con quel terrazzo, lo conosciamo un po’ tutti. È – per sua stessa ammissione – praticamente identico a quello che vediamo negli episodi di Vita da Carlo, la serie tv che dal 2021 ci racconta le sue giornate. È lì che Carlo Verdone, 73 anni, attore e regista amato dall’Italia intera da quando non ne aveva neppure 30 e il suo faccione esplodeva in mille irresistibili smorfie al cinema con Un sacco bello, si lascia cogliere da queste riflessioni sul tempo che è stato e che sarà. Ironico, amaro, rapito da quelle stesse dolcezze nostalgiche che ha sparso qua e là nei suoi film, comici e tristi allo stesso tempo in modi che solo lui conosce e ci regala praticamente da sempre. Al cinema e negli ultimi tre anni solo in tv.
«Rifletto molto sul tempo», premette subito, «detesto vivere alla giornata. Ma a differenza di una volta, quando facevo grandi progetti per il futuro e avevo una visione delle cose a cui avrei dovuto dedicarmi, non mi faccio grandi illusioni. A quest’età cerco di rendere la giornata la più piena possibile e soprattutto sono diventato una persona che ama riservarne una parte ai ricordi del passato. Mi dà grande sollievo questo, è come farmi una carezza».
In pratica possiamo dire che ha istituzionalizzato un’abitudine quotidiana al ricordo...
«È un piacere enorme e mi viene facile perché dentro casa ho tantissime fotografie, sui mobili. Non ci sono soltanto quelle con persone importanti, di me con Federico Fellini o insieme alle rock star che ho potuto conoscere personalmente, da Jeff Beck ai Led Zeppelin, da David Lynch a Vasco Rossi o ai Pink Floyd. Ce n’è tutta una parte dedicata alla mia famiglia e a quelle di mia madre e mio padre, ai miei zii, ai miei figli piccoli e poi un po’ più grandi, fino a come sono adesso. Quelle che ho fatto io a 23-24 anni a mia madre sono bellissime: lei ancora stava bene, non era malata. Mi riportano a quelli che io definisco i tempi migliori. Perché erano i tempi migliori».
Che cosa intende, esattamente?
«Io, nato nel 1950, sono stato molto fortunato: ho vissuto un periodo magnifico. Ricordo abbastanza bene l’ultimo scorcio degli anni Cinquanta e tutti i Sessanta, che sono stati fondamentali. Li ripenso con grande nostalgia. Erano tempi migliori in tutto. Sono vissuto in una casa dove c’era un gran bel salotto intellettuale. Ho conosciuto gente importante ma sempre sorridente, nei magnifici dopocena rilassati dei miei genitori con i loro tanti amici: oltre a Fellini grandi musicisti come Silvano Bussotti o Leonard Bernstein. È passato di tutto da quella casa. Era un bel vivere. Oggi quelle tradizioni non ci sono più ma non c’è più neanche la disponibilità a vivere così. La vita è talmente cambiata».
Par di capire in nessun caso in meglio...
«Eravamo usciti da una guerra, c’era stato il boom economico, c’era tanto entusiasmo, tanta creatività intelligente, c’era la prima arte astratta e mio padre era un gran collezionista. C’erano gli ideali».
Ora parla di lei o dei suoi genitori?
«Poi sono arrivati anche gli ideali per noi giovani: iniziano con i Beatles, con Bob Dylan, il pacifismo, la guerra in Vietnam, lo stare insieme l’aggregazione... poi piano piano siamo sfociati verso l’eroina, le Brigate rosse, e si è sfasciato tutto».
Confessa – Carlo Verdone – che oggi gli basta un colore per viaggiare nel tempo. All’indietro, naturalmente.
«Mi basta per riportarmi immediatamente a qualcosa dei miei 10-12 anni nella casa paterna vicino a Ponte Sisto (zona Trastevere; ndr)».
Si fa strada l’esattezza di sguardo del regista quando si lascia andare alla descrizione di un ricordo che diventa realtà: «Poco fa, c’era un raggio di sole che sbatteva su una lampada su cui appoggia una candela verde. Provocava un riflesso verde sul soffitto identico a quello della camera da pranzo dove vivevo con i miei. E quindi automaticamente mi si scatenano i ricordi, torno là».
Perché là è meglio che qua.
«In quella casa avevo un bel terrazzo. Non che questo non lo sia, eh. Però quello là, un po’ più piccolo, un po’ più semplice era più bello. Il palazzo era antico, pieno di storia, coi portici. Ci ho intitolato anche il mio primo libro sul palazzo: La casa sopra i portici».
Ma adesso mi pare che siamo totalmente immersi nel secondo, La carezza della memoria...
«Già, è vero. Da quel bel terrazzo vedevo la sinagoga, San Pietro, i castelli romani... C’era il suono bellissimo delle campane. Ora è tutto cambiato. Anche il clima, con questo caldo così opprimente, soffocante, malsano. L’afa rende tutto leggermente nebbioso. In quegli anni quando si toccavano i 32 gradi si diceva “che afa tremenda, non si dormirà stanotte”. Invece ieri ne abbiamo fatti 41 qui a Roma, quasi 10 di più. Era una città piena di grazia, ora di grazia non ce n’è più. Per fortuna vista dall’alto, qui dove ho scelto di abitare, mi pare sempre uguale e più o meno sempre bella».
Che succede, invece, se scende giù?
«Succede che è cambiato tutto. È morto l’apparato umano di Roma: gli artigiani, le piccole botteghe, il vetraio, il calzolaio, il tornitore. Quelle botteghe facevano un bel rumore la mattina».
Ma così non corre il rischio di passare per nostalgico, per passatista? Qualche personaggio dei suoi primi film la prenderebbe in giro.
«Per carità di Dio, no, passatista no. È normale che i tempi cambino, chiaro».
In peggio...
«L’ho visto negli Anni 80, che hanno voluto imitare – diciamo così – la leggerezza dei 60. Non ci sono riusciti: alla fine sono stati anni di preparazione a un capitalismo sfrenato che ci ha travolto e portato dove siamo ora. Anni di disimpegno che hanno cancellato i valori, con la punta massima del disastro a fine 90 e nei Duemila. Il personaggio mitomane e megalomane del mio Gallo cedrone è stato anticipatore».
E il tempo che agisce sul fisico la preoccupa?
«Beh, è la terza estate che vado sul letto chirurgico, non so se mi spiego... Tredici giorni fa mi hanno levato la tiroide, l’estate scorsa ho avuto un altro problema ma per fortuna l’esame istologico è andato bene, quella prima ci sono state le anche. Consideravo il mio corpo come una casa solida, una fortezza. Invece ora ho capito che è un alberghetto, anzi una pensione, una locanda che dura due/tre giorni. Non sento alcun tipo di angoscia e non mi sento ancora vecchio. Certo che se anche la prossima estate mi toccasse affrontare un altro problema col bisturi mi romperei le scatole. Credo pure di essere il recordman del Covid: ne ho presi cinque, l’ultimo poco prima dell’intervento».
Ma il Verdone ipocondriaco è verità o leggenda?
«Mi pare una leggenda: mi sa indicare uno che senza paura va in sala operatoria a farsi fare due anche in un colpo solo? Mi hanno diviso in due e riattaccato e non ci ho pensato un attimo su, l’ho fatto senza paura. Mi affido al destino, ai bravi medici e al chirurgo».
Invece le rughe non sono un problema.
«Non me ne frega niente. E poi sono fortunato: non ho molte rughe io. Un po’ è una cosa ereditata da mio padre. Forse è anche per il fatto che non posso prendere sole. Se non lo prendi la tua pelle rimane sempre elastica. Un po’ come quella del sedere, anche quella non c’ha rughe: perché sta sempre al buio».
Nessuna paura della morte?
«Siamo mortali. Anche se nessuno vuole sentirselo dire siamo nati col certificato di morte in mano. Bisogna ragionarci con filosofia. L’unica speranza è non dover soffrire troppo andandosene. Aver paura della morte se si riflette bene è un po’ una stronzata perché come diceva Epicuro quando c’è lei tu non ci sei e viceversa. La cosa brutta è vederla arrivare, la morte».
Quali segnali teme?
«Quando si comincia a perdere la memoria: il cervello non funziona più come prima, non vengono più le parole, non riesci a riconoscere qualcosa o ti dimentichi di cose importanti. Terrificante. Quello è brutto, quello significa veder arrivare la morte».
Lei l’ha visto negli occhi di sua madre Rossana tutto questo.
«Sono stati 4 anni veramente brutti che non auguro a nessuno, quelli della malattia di mia madre. Era la persona più buona del mondo, alla quale forse dovevo più di tutti nella vita. Se ne è andata via troppo giovane, 59 anni aveva. L’ho ritenuta un’ingiustizia e ho perso anche la fede in quel periodo».
Era il 1984, lei girava Acqua e sapone...
«Volevo vedesse ancora altre cose che potevo fare nel lavoro, lei che mi spronò sempre. Era un angelo mia madre e si ammalò d’una brutta malattia neurologica, molto rara. Mi chiedevo perché proprio a lei, l’ultima persona al mondo che meritava quella tortura».
Come definirebbe la sua fede?
«Fede in una mente superiore, enorme, immensa, incommensurabile e certe volte anche incomprensibile. Però sento che quando faccio cose buone, quando sono nel giusto, sto bene. E questo mi tiene in piedi».
A suo padre Mario, critico e storico del cinema scomparso nel 2009, pensa ancora molto?
«Ce l’ho sempre dentro casa, sono diventato un collezionista d’arte come lui. Aver trovato il coraggio per scrivere libri ha a che fare con la sua educazione. Sarebbe stato contento di leggerli, perché la lingua è semplice e vivono di immagini come i film. Sono stato molto attaccato alla famiglia ed è uno dei dolori più grossi vedere quelle di oggi che faticano, che sono disgregate. Per fortuna non è capitato con i miei figli (Giulia, 38 anni, nutrizionista e Paolo, 36, dirigente statale; ndr) hanno avuto un’educazione forte e sono molto seri. Io e la mia ex moglie ne andiamo fieri».
Salga sulla macchina del tempo per andare in un punto preciso della sua vita passata. Quale?
«Sul terrazzo della mia casa paterna, d’estate, c’era un bel tavolo lungo, rettangolare, di marmo, un po’ antico. Tutte le sere cenavamo là. Vorrei rivedere la famiglia riunita attorno a quel tavolo. Papà, mamma e noi tre fratelli. Era davvero bello quel posto, tutto coperto di vite americana, c’erano gli allori, la vite canadese, tante altre piante. Molto ben curato quel terrazzo. Vorrei rivedere i volti di mio padre e mia madre in quel momento. Non sono triste eh? Solo nostalgico con un pizzico di malinconia. Lo definirei leggero stato leopardiano...».
CHI È
Carlo Gregorio Verdone è nato a Roma il 17 novembre 1950 da Mario, critico e storico del cinema e Rossana, casalinga.
L’ingresso nel mondo dello spettacolo avvenne a fine Anni 70 in un cabaret di Roma, poi in tv con il programma Non Stop, nel 1980 l’approdo al cinema.
Scoperto dal grande regista del varietà tv Enzo Trapani, nel 1977 debuttò con altri comici presto di successo (Massimo Troisi, Lello Arena, Jerry Calà, Umberto Smaila), nel rivoluzionario programma Non Stop.
Dall’esordio del 1980 come attore e regista in Un sacco bello, ha recitato e diretto altri 27 film, l’ultimo nel 2021, Si vive una volta sola. Da allora ha diretto e interpretato, nel ruolo di sé stesso, 4 stagioni della serie tv Vita da Carlo. Come attore ha recitato in film di Bernardo Bertolucci, Giovanni Veronesi e Paolo Sorrentino.