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 2024  agosto 17 Sabato calendario

Intervista a Giancarlo Giannini sul cinema

“Il cinema è morto. L’aveva già detto Fellini più di trent’anni fa e aveva ragione”. E se lo dice Giancarlo Giannini, tra i più celebri attori italiani nel mondo, c’è motivo di credergli. Più di 150 film, classe 1942, protagonista di film cult come Pasqualino Settebellezze, che gli valse nel ’77 una nomination agli Oscar come Miglior Attore, e di ruoli grotteschi ma simbolicamente nostrani, come Mimì metallurgico ferito nell’onore, del ’72. Italianissimo nel DNA, nonostante gli innumerevoli ruoli internazionali e altrettanti premi. “In Italia mi hanno sempre premiato poco, ultimamente ho ironizzato sul fatto che a Venezia non mi hanno mai dato neanche un gatto nero”. E poi, la passione per il doppiaggio. Sua la voce di Al Pacino nella maggior parte delle sue interpretazioni, di Jack Nicholson in Shining, Michael Douglas in Wall Street, Dustin Hoffman ne Il Maratoneta. Uno sguardo curioso, quello di Giannini, sul mondo di oggi, raccontato all’evento La Terrazza della Dolce Vita, curato da Simona Ventura e Giovanni Terzi al Grand Hotel di Rimini.

Il cinema è davvero morto?
Chiedevo anch’io chiarimenti a Fellini, quando me lo diceva. E lui rispondeva: “Giancarlino, andremo al cinema come ad un museo, non ci sarà più quel bellissimo raggio di luce in sala, che ora attraversa il fumo della tua sigaretta”, infatti poco dopo è cambiato tutto…

Lei è ancora un grande attore.
Non sono un attore, sono uno che ama giocare con i ruoli, che non si prende sul serio, non sono mai stato capace di entrare in un personaggio. Ho interpretato per tre anni Romeo in giro per l’Europa, per la regia di Franco Zeffirelli, che alla fine si prende il veleno e si ammazza. Come puoi entrare davvero in un personaggio così? Devi saperci giocare, si finge… Però il cinema è cambiato.

In meglio o in peggio?
Dire in peggio è molto facile, però lo dico lo stesso. Perché i capolavori sono stati tutti già fatti. Fellini, con il suo Otto e Mezzo, poi Kubrick, Kurosawa. Abbiamo avuto grandissimi registi.

Non ce ne sono più?
Ne abbiamo di bravi, certo, soprattutto italiani, come i nostri attori del resto. Tutti i grandi attori americani hanno origini italiane. Noi abbiamo un modo diverso di affrontare tutto, Napoli per esempio è una scuola di vita. Abbiamo avuto Eduardo De Filippo, il migliore commediografo che sia mai esistito. Insegno sempre questo ai giovani attori, un messaggio che serve nel lavoro e nella vita “Futtetenne”.

Lei ha avuto una carriera straordinaria. Come ha fatto a conciliarla con la vita privata, come si sono intrecciate?
Ci si divide e se la moglie o il marito ti rompe, te ne vai. Il marito non te lo fa capire, fa sempre in modo che la moglie se ne vada. Noi uomini siamo più infantili delle donne, ma se vogliamo, possiamo calcare la mano e fingerlo di esserlo ancora di più.

E le sue esperienze internazionali, cosa le hanno lasciato?
Ho lavorato molto con gli americani, ho fatto due 007, il famoso Casino Royale. Ricordo che leggendo la sceneggiatura non capivo se Mathis, il mio personaggio, fosse un amico o un traditore di 007. Il primo giorno sul set andai dal produttore Michael Wilson e gli dissi “guardi, io non ho capito da che parte devo stare”. E lui “non lo sappiamo neanche noi”. Allora mi sono inventato una spia a modo mio.

Lei ha doppiato grandi star americane. La appassiona farlo?
Il doppiaggio è come essere intonati, è un talento che non capita a tutti. Di per sé è una mostruosità far parlare un cinese in italiano, ma noi italiani siamo particolarmente portati nel doppiaggio. Ho cominciato di nascosto, per arrotondare, mentre studiavo all’accademia di arte drammatica. Poi l’ho insegnato anche agli altri.

Il 6 marzo 2023 ha ricevuto una stella sulla Hollywood Walk of Fame a Los Angeles.
Al momento siamo solo due italiani (ndr, uomini) ad averla ricevuta, Rodolfo Valentino e io. Ma i premi non servono a niente, l’unico critico vero sei tu. Non c’è una regola in questo mestiere.

Lei racconta spesso di essere un perito elettronico, ci tiene.
Ho studiato in un istituto napoletano. Avevo degli insegnanti straordinari, il mio prof di fisica era compagno di banco di Enrico Fermi a Pisa. Essere perito mi è servito come attore, soprattutto nel doppiaggio. L’elettronica insegna l’arte dell’inventiva, perché non sai mai cosa possa succedere in un circuito. Accade lo stesso quando leggi una sceneggiatura e devi immaginare cosa farai fare a quel personaggio, come lo farai muovere, che voce gli darai.

È anche un inventore.
Ho inventato la giacca indossata da Robin Williams nel film del ’92 Toys- Giocattoli di Barry Levinson. Mi piace pensare a tutto ciò che ancora non esiste. Ottenere un brevetto negli Usa è difficile, devi essere l’unico al mondo ad aver pensato qualcosa. Ne ho tre.


La fantasia è importante. Spesso i telefonini che abbiamo al seguito possono frenarla.
È un momento storico complesso. Non rispondo più a nessuno al telefono, le mail non le leggo più da anni. Quando mi sono sposato con la mia seconda moglie ero in un albergo sperduto in Arizona, di quelli fatti a ferro di cavallo e al centro c’era un telefono pubblico. A un certo punto ricevo una telefonata da un produttore di Hollywood, Richard Brook, che sapeva dove fossi quando nemmeno io lo sapevo. Chi vuole trovarti ti trova ovunque…


E il suo storico rapporto con Lina Wertmüller?
Era un genio, si intendeva di musica, ballo, canto, sceneggiatura, fotografia. Non è stata valorizzata. In tutti i nostri film i premi li prendevo io e a lei non davano mai niente. I suoi primi piani su di me o su di Mariangela erano fortissimi, muoveva la macchina di pochi millimetri, metteva la luce, sapeva fare tutto.


E di Monica Vitti che ricordo ha?
Un’attrice che aveva il senso del tempo. Ma ho lavorato bene anche con Lina Sastri, Anna Magnani, Mariangela Melato. Ho avuto a che fare anche con parecchie attrici non brave…


Prossimi progetti?
Non ne ho, lascio che tutto accada, giocando.