il Fatto Quotidiano, 17 agosto 2024
Biografia di Aldo Palazzeschi, poeta
«L’uomo non può essere considerato seriamente che quando ride. Il riso è il profumo della vita di un popolo civile». Oggi ricorrono esattamente cinquant’anni dalla morte di Aldo Palazzeschi (2 febbraio 1885-17 agosto 1974), poeta giocondo ma profondo, funambolo della lingua che si faceva beffe di ogni accademismo, piedistallo e dogma. Una filastrocca, un nonsense, un paradosso li demistificherà. Un intellettuale libero, come i suoi versi.
Vertiginoso, iconoclasta e sovente snobbato («Il divertimento gli costerà caro/ gli daranno del somaro»), Palazzeschi sta alla letteratura italiana come Enzo Jannacci alla canzone d’autore. «Il poeta si diverte/ pazzamente/ smisuratamente!/ Non lo state a insolentire/ lasciatelo divertire/ poveretto/ queste piccole corbellerie/ sono il suo diletto». Suono e sostanza, free jazz della macchina da scrivere. Un innovatore di stile nel suo attacco al bello-sterile stile, alle rime pompose, alla prosa imbellettata.
Pseudonimo di Aldo Giurlani (Palazzeschi era il cognome della nonna), era nato a Firenze nel 1885. Il suo debutto è da poeta crepuscolare: pagine dissacranti e parodistiche, da I cavalli bianchi del 1905 ai Poemi del 1909, che pubblica a sue spese. Di lirico alla D’Annunzio rimane ben poco. Poi aderisce per un po’ al futurismo. Ecco L’incendiario (1910) e Il codice di Perelà (1911): del movimento di Marinetti gli interessa la sfida ai canoni precostituiti e non certo il vitalismo smodato, né tanto meno l’interventismo bellico. Lui stesso viene richiamato alle armi e dopo la Grande guerra accetta, a modo suo, il «ritorno all’ordine». Resta di fatto indipendente dal fascismo e comincia a sfornare racconti di successo popolare: in fondo, il passo dei suoi versi era sempre stato narrativo. Manda così in soffitta la poesia per abbracciare la causa del romanzo: come confessò in una lettera ad Arnoldo Mondadori, «io voglio essere amato dalle creature semplici e non dai sapienti di letteratura». Tra i titoli della svolta e della maturità, Il re bello (1921), La piramide (1926), Stampe dell’800 (1932), Bestie del ’900 (1951), Il doge (1967) e Storia di un’amicizia (1971). Nel 1934 era uscito il suo libro più celebre, Sorelle Materassi, il côté tragicomico della piccola borghesia nazionale allo specchio. Tutta la sua produzione romanzesca oscilla tra il post-realismo e un’opera buffa, laterale e misericordiosa sulla commedia umana. «Anche in un fazzoletto da naso può esserci un firmamento, basta sapercelo vedere». Elogio della leggerezza pensosa.
Il nome di Palazzeschi, diventato ormai da un pezzo cittadino romano, torna à la page negli anni 60, lui che era stato considerato un padre (o un nonno) delle avanguardie. La Neoavanguardia lo guarda con simpatia: il Nostro si lascia corteggiare, sornione. Comunque meglio delle avance della seriosa «cultura ufficiale». Ma poi sul Corsera (con cui collabora da tempo) sgancia la sua burla terra-aria: «Coloro che furono avanguardisti cinquant’anni fa saranno i più acerrimi nemici degli avanguardisti d’oggi, giacché la loro avanguardia è passata alla storia senza che se ne siano accorti, e a quella come ostriche sono rimasti attaccati. E dunque, caro Sanguineti, che cos’è mai questa avanguardia?». Mentre a proposito di un altro esponente di spicco di quel decennio chiosa: «Sono cinquanta, quasi sessant’anni che io provo ammirazione e interesse per tutto ciò che è nuovo. Be’, non credo davvero mi si possa accusare di conservatorismo o altro se dico che certe volte questo Pasolini non mi convince proprio, mi dà l’idea d’un De Amicis dell’era atomica».
Il suo canto del cigno letterario è Via delle cento stelle, nel 1972. Due estati dopo, il 17 agosto del 1974, la sua uscita di scena terrena, quasi novantenne. «E ora vi dico addio / perché la mia carriera / è finita / evviva!/ Muoiono i poeti/ ma non muore la poesia / perché la poesia / è infinita / come la vita». Stelle filanti di parole, fuochi d’artificio semantici, espressioni e (de)costruzioni stranianti, simmetriche al vortice di vivere. «Vita, orrenda cosa che mi piaci tanto».
Palazzeschi è stato uno scrittore non allineato ai cori dominanti, allo Zeitgeist del momento: nel suo mirino, soprattutto i luoghi comuni (e i tromboni autoreferenziali di ogni colore). Sempre (si intende) con ironia, “estrema punta della politica dello spirito”. Divertire divertendosi. «Son dunque… che cosa? Io metto una lente davanti al mio cuore per farlo vedere alla gente. Chi sono? Il saltimbanco dell’anima mia».