Il Messaggero, 17 agosto 2024
Intervista a Eleonora Giorgi, attrice
«Ma io non ho un rapporto facile con l’estate, sa?». Proprio lei, che nel 1983 turbava i sonni degli italiani (e del futuro marito Massimo Ciavarro, conosciuto su quel set) apparendo nel sequel tutto spiaggia e onde spumose di Sapore di mare. Lei, Eleonora Giorgi, con l’estate – dice – ha qualche problema. «Tutti quei film girati durante le estati più torride, a 42 gradi, con gli svenimenti sul set: per carità». Eppure, scavando nel passato della donna prima che dell’attrice, qualche memoria felice c’è: «Le prime dieci estati della mia vita, quando si partiva per la villeggiatura. Allora erano altri tempi e altri sistemi economici, Le famiglie se ne andavano via per mesi interi». Dieci estati di cui una, in particolare, è oggi più preziosa delle altre: «Estate 1963. Quella in cui scoprii l’Italia».Dove si trovava?«Mia mamma quell’anno scoprì grazie a degli amici Ponza. Isola incontaminata, ancora non c’era la luce. Decise di portarci noi bambini – eravamo in cinque – e così prendemmo posto in un affittacamere, a Cala Feola, vicino a delle piscine naturali bellissime. Una vista insieme affascinante e spaventosa».Perché?«Perché non sapevo nuotare: fino a quel momento io e i miei fratelli avevamo visto il mare solo sul litorale laziale e non avevamo mai fatto una sola lezione di nuoto. E così mamma, appena arrivati, prese e ci buttò in acqua».Scusi?«Era fatta così. Era ungherese, mentalità austriaca. Era nata a Budapest: sua mamma era una grande appassionata d’Italia, così tanto che si innamorò di un generale italiano, divorziò e si trasferì a Roma. Una donna adorabilmente irremovibile, la nonna. In ogni caso, quell’estate del 1963, mia madre, davanti alle piscine, ci disse: “Così imparate a nuotare”, e ci lanciò in acqua».Come finì?«Finì che siamo tornate a riva nuotando a cagnolino. Guardi che io col mare ho ancora oggi dei problemi: ho un incubo ricorrente, quello di un paese sommerso dalle onde. Negli alberghi evito persino le camere con vista sul mare: da quando ho ventuno anni, poi, sono fotofobica. E ho il terrore degli squali».Ancora per via di sua mamma?«No, stavolta fu mio fratello. Sempre a Ponza, sempre alle piscine. Lui, che aveva 14 anni, decise di tuffarsi e raggiungere a nuoto il molo, 400 metri più avanti, al tramonto. Mamma era a riva con gli altri due figli, troppo piccoli per nuotare, e non poteva tuffarsi dietro di lui. Così in mare mi ci buttai io. Avevo il sole negli occhi e lui andava molto più veloce di me. A un certo punto si è fermato e ha cominciato a gridare che alle mie spalle c’era uno squalo. Uno scherzo stupidissimo. Ho rischiato seriamente di affogare».Perché in quella vacanza ha detto di aver scoperto l’Italia?«Da casa nostra c’era un sentierino che portava al mare, costeggiando le casette bianche dei contadini. Lo facevamo ogni giorno per arrivare alle piscine. A metà strada, ogni volta, si diffondeva un profumo fortissimo, esotico, avvolgente. Un odore che mi travolgeva i sensi».Quello della vegetazione?«No. Quello degli spaghetti al pomodoro. Ancora adesso, se ci penso, me li sento nel naso. Non li avevo mai mangiati prima. Sa, mamma ungherese...».Da dove veniva il profumo?«Lungo il sentierino vivevano una madre e una figlia: avevano una casetta che davano in affitto ai turisti nordici, e sul loro patio c’era un grande tavolo, con le luci a petrolio, affacciato sul molo. I pescatori salivano da loro per un piatto di pasta, per bere e giocare a carte».Andò anche lei?«Sì, ma non capivo una parola di quello che dicevano. Non avevo mai sentito parlare napoletano. Del dialetto imparai subito le parolacce. Ma erano pranzi divertenti, si mangiava circondati da orti, vigne e cani liberi. E su tutto aleggiava il profumo della salsa al pomodoro. Era la massima espressione del Mediterraneo. Ma anche un quadro quasi neorealista. Insomma: l’Italia».E prima di Ponza dove vi portava la mamma?«In Alto Adige. Era madre di cinque bambini biondi e là in mezzo, tra gli italo-tedeschi, si sentiva a casa. Nel 1960 andammo a Castelrotto (in provincia di Bolzano, ndr): eravamo bambini di città e non sapevamo niente né delle mucche, né di un mondo antico e faticoso come quello della montagna. Imparammo a rispettare il fieno e a capire quanto fosse prezioso. Scoprimmo la stupefacente bellezza degli orti con i fiori. E la durezza con cui anche i bambini potevano essere trattati».Cioè?«Affittammo uno chalet nel quale, al piano terra, vivevano i proprietari. Avevano due bambini miei coetanei, lei con il vestitino tipico e lui sempre con un pantaloncino di pelle. Alle sette della mattina il padre li chiamava perché lo raggiungessero nella stalla. Una volta decisi di andare anche io, di nascosto. Scoprii così che il padre li frustava: una frustata a lui, una a lei. Così, per temprarli».Mamma che diceva?«Non ne abbiamo mai parlato. Non c’era tempo, ci trascinava ogni giorno in una nuova avventura. La sua sportività, per il tempo decisamente inconsueta, rasentava l’incoscienza. Nel 1961 ci portò a fare il giro delle Torri del Vajolet guidati da un sacerdote. Il quinto figlio lo portava nello zaino, il quarto sgambettava da poco. Dormivamo nei rifugi ad alta quota: era una donna estrema».Perchè vi guidava un sacerdote?«A un certo punto, dopo la separazione da mio padre, lei iniziò un cammino spirituale. Finì che se ne andò a vivere in una comunità religiosa neo-catecumenale. È morta un anno fa, un grande dolore. Anche se penso qualche volta che fosse un po’ matta. Ma mi ha insegnato moltissimo».Il più grande insegnamento?«Non piangermi mai addosso. Una disciplina che mi è sempre servita nella vita. In ogni caso, andare avanti. E se cadi, “raus, marsch” ("avanti, prosegui”, ndr)».