la Repubblica, 17 agosto 2024
Intervista a Giampaolo Morelli, attore
(...) Internet ci ha irreversibilmente cambiati.«È una forma di progresso, ha reso più facile la comunicazione. È un amplificatore di democrazia, anche in modo spropositato: se ai tempi di Hitler ci fosse stata la rete non penso ce l’avrebbe fatta a diventare un dittatore, non sarebbe sopravvissuto all’ondata di commenti distruttivi. Ma internet ci fa anche male, la valanga di immagini felici che ci sommerge. Io sono uno a guardare e loro milioni a postare. La mia vita pare noiosa, quella degli altri stupefacente. Cosa semplicemente non vera: la vita è una rottura di palle per tutti. Internet e i social ti mostrano la vita senza parti noiose».Quel che diceva Hitchcock dei film.«Solo che lo facevano raccontandoci storie più ampie. Oggi è quasi pornografica la felicità fatta di spiagge e posti incantevoli e cibo meraviglioso e divertimento. Sulla psiche un effetto ce l’ha».È un film comico d’azione.«Ero dislessico, all’epoca non veniva diagnosticata. Così ero un bambino problematico, che non ce la faceva, non era capace. Chiuso, timido. Il cinema è stata la mia salvezza, il mio angolo di mondo. Il cinema anni 80 e 90 americano è stato il mio riferimento. L’action comedy è un territorio poco battuto, ho cercato di mettere cura visiva nell’azione».Ha voluto l’icona anni 90 Christopher Lambert come cattivo.«All’anteprima al Comicon nella scena in cui combattiamo con le spade con Lambert è venuta giù la sala. Come di ogni film, ricordo la prima volta che ho visto Highlander: su un pullman, gita in montagna. Gli altri dietro facevano casino, io e l’autista guardavamo il Vhs del film».Malgrado le difficoltà ha fatto il liceo classico e poi Giurisprudenza.«A cinque esami dalla laurea ho cambiato in Psicologia. Il percorso scolastico è stato accidentato, ho cambiato tre scuole. Ero anche avanti di un anno e mezzo. Io, dislessico, ero additato come lo svogliato, o quello che non ce la faceva. Passavo intere giornate a studiare, senza risultato. Quella condizione ti cambia, ti fa sentire diverso. Non è un caso che abbia scelto un lavoro anomalo, per la mia famiglia. I miei l’hanno presa male».La gavetta?«Durissima. Ho iniziato con il cabaret, i locali a Napoli dove uscivo con la tutina, la parrucca a fare gli sketch, mentre la gente mangiava eparlava. Mi sono esibito davanti al bancone di un bar, senza un palco, alle tre di notte, per quelli che venivano a prendere i cornetti dopo una nottata in discoteca, strafatti, ubriachi. Quella notte, vicino a via Caracciolo, mi sono interrogato sulla linea sottile che divide l’arte dal chiedere l’elemosina».Provini andati male?«Migliaia. Li ricordo tutti, i no che ho preso».Il sì che ha sbloccato tutto?«Quello di cui avevo più bisogno: South Kensington di Carlo Vanzina. Ero a Roma ormai da due anni, non lavoravo, facevo la scuola di recitazione. I soldi messi da parte con il cabaret iniziavano a finire. Seppi che Vanzina cercava un attore napoletano, andai senza grandi speranze. Mi ritrovai protagonista a Londra, con Rupert Everett, Elle MacPherson, Sienna Miller. Quel provino mi restituì la speranza e Carlo non lo scorderò mai».Per quale personaggio la fermano per strada?«Sicuramente per Coliandro. Gli sono grato, mi ha dato la possibilità di esprimermi non in napoletano».(...)