Corriere della Sera, 17 agosto 2024
Intervista a Nicola Lagioia, scrittore
Nicola Lagioia, come entrano i libri nella sua vita?
«Prima entrano le storie. Da bambino, stavo spesso dai nonni contadini a Capursi, nelle campagne baresi, e ascoltavo per ore le donne che impastavano orecchiette: erano bravissime raccontatrici. Nelle loro storie, c’erano sempre di mezzo dei morti, specie morti che venivano a visitare i vivi. La letteratura non nasce coi libri, nasce orale. José Saramago, nel discorso di accettazione del Nobel, disse: l’uomo più saggio che ho conosciuto non sapeva né leggere né scrivere. E racconta di suo nonno che lo portava a dormire sotto il fico e gli raccontava di “leggende, apparizioni, terrori… zuffe con bastoni e pietre, parole dei nostri antenati…”. Anch’io quel canovaccio di storie ce l’ho scolpito in testa».
I libri stampati quando arrivano?
«Sempre dai nonni: custodivano in un baule la Divina Commedia e, a quattro o cinque anni, costringevo mamma a leggermela. Mi colpivano le cose basiche: primo, che la vita fosse un viaggio; secondo, che gli amici sono importanti, perché senza Virgilio, Dante non sarebbe andato da nessuna parte; terzo, che si può sbagliare, ma recuperare la diritta via. E infine, una cosa che non avrei saputo spiegare, cioè che l’amore è una forma di conoscenza e intelligenza. Non quello romantico, ma quello “che move il sole e l’altre stelle”: Dante può fare il viaggio in quanto ama. Attraverso l’amore, riduci l’ego e più lo riduci, più si espande la coscienza ed entri in sintonia col creato».
Come arrivò l’ispirazione per La ferocia, con cui ha vinto il Premio Strega nel 2015?
«La prima scena l’ho vista in sogno».
«In una calda notte di primavera, una giovane donna cammina nel centro esatto della strada statale. È nuda e coperta di sangue. A stagliarla nel buio, i fari di un camion…».
«Un sogno forse indotto dalla visione dei film di David Lynch. La statale era quella che passava vicino casa mia a Bari. Scrivendo quel libro, pieno di salti nel tempo, di punti di vista diversi, così difficile, mai avrei immaginato che venisse comprato ogni anno da un Paese diverso ancora a distanza di anni».
Col senno di poi, come se lo spiega?
«Forse, perché è la storia di una famiglia tenuta insieme da energie contraddittorie: amore, rancore, invidia, in cui tutti possono riconoscersi. E poi, c’è quel tipo di Sud...».
Lo spirito dei luoghi è parte integrante di quel romanzo come lo è lo spirito di Roma nella Città dei vivi, fra decadenza, spazzatura, incendi, cinismo. Che Roma è la sua?
«Volevo raccontare la città in cui sono andato a vivere, dove è possibile vivere. Roma puoi amarla e accettare di esserne tradito. Io, dopo averci un po’ combattuto, ho pensato: ma chi sei tu per combattere una città che esiste da 2.700 anni? Alla fine, è il luogo dove ho sempre voglia di tornare, dove ho incontrato mia moglie (Chiara Tagliaferri)».
Perché ha scelto di raccontarla attraverso la storia vera del ventenne Luca Varani, ucciso da due coetanei senza una ragione?
«Mi sentivo emotivamente vicino sia ai colpevoli sia alla vittima, come se fossero tre fratelli minori. Credo di aver scritto per stare in quella dimensione emotiva, ma neanch’io sono riuscito a capire fino in fondo perché l’ho fatto. Forse perché quella vicenda raccontava molto del nostro tempo: era come se avessero messo su una serie di cause effetti che non erano riusciti a fermare. Un rapporto così labile con la responsabilità individuale mi sembrava molto contemporaneo. Oggi, la società ha una vocazione vittimistica, non accettiamo di essere noi a provocare il male».
Lo scrittore ha una spiegazione per questo?
«Penso a Delitto e Castigo di Fëdor Dostoevskij, in cui Raskòl’nikov, prima di uccidere, ci pensa a lungo, poi se ne assume la responsabilità e proprio per questo può pentirsi. Ma se cade il libero arbitrio, se gli assassini di Varani si raccontano come se non l’avessero, siamo fuori dalla modernità. Nessuno si prende più la responsabilità di ciò che fa, accade anche in casi non violenti. Penso ai politici che fanno dichiarazioni che anni fa sarebbero state sufficienti a dimettersi. Nessuno dice: ho sbagliato. Ma se smarrisci l’ombra, fai danni senza che te ne accorgi».
Lei è mai stato vicino a far danno?
«Quotidianamente. Divento aggressivo, mai con la violenza fisica. Aspiro però alla riduzione del danno, non all’eliminazione. Se no, sarei un mistico, non uno scrittore».
Su Melissa P., vent’anni fa, ebbe parole feroci poi rivangate con l’accusa di sessismo. Lei rispose confessando che, ai tempi, difettava di consapevolezza. Come è arrivata la consapevolezza?
«Ero ancora una specie di selvaggio arrivato dalla comunità post punk di Bari ed era una chiacchierata ripresa da un blog, più giocosa di come risultò. Però, mi resi conto subito di aver sbagliato, infatti, chiesi scusa a Melissa e siamo diventati amici».
Perché ritirò La città dei vivi dalla corsa allo Strega?
«Ricevevo segnali che mi dicevano che rischiavo di vincere di nuovo. Ero anche direttore del salone del libro di Torino. Pensai: sarebbe un atto di tracotanza, non mi sarà perdonato».
Quando ha iniziato a scrivere?
«Intorno al terzo anno di Giurisprudenza. Scrivere non era in programma. Da piccolo, disegnavo fumetti perché ero un divoratore di fumetti, ma da studente iniziai a frequentare la scuola di lettura di un circolo Arci, mandai un racconto a Stampa Alternativa e ne fecero un libricino che mi diede coraggio».
Primo lavoro da Castelvecchi Editore. Che cosa faceva?
«Tutto: affittare le sedie per le presentazioni, il correttore di bozze, il montatore di stand».
Ora, sta scrivendo?
«Sono a metà di un libro, pubblico ogni cinque, sei anni, ma scrivo solo al mattino, dalle sei alle dieci e mezza: oltre, perdo la capacità di concentrazione, però, sono contento così. La cosa più difficile è capire qual è la storia che voglio raccontare prima che la storia ci sia. In questi anni sono cambiato: quando ho iniziato, credevo che lo scrittore fosse un demiurgo, un creatore di mondi, ora, credo che sia un medium che si lascia attraversare da qualcosa che gli arriva e a cui presta voce».
L’amica geniale è il libro del secolo, come sostiene il New York Times?
«L’ho amato e credo che meriti di stare in quella classifica. A me hanno dato molto 2066 di Roberto Bolaño, Il passeggero e Stella Maris di Cormac McCarthy e alcuni racconti di Alice Munro».
Terrebbe in classifica Munro anche ora che la figlia ha denunciato che, da piccola, fu molestata dal patrigno e che, quando la madre lo scoprì, non fece nulla?
«L’opera resta. E quello che è successo, forse, fornisce una chiave di lettura a testi in cui ci sono di continuo crudeltà gratuite verso innocenti, segreti che faticano a essere rivelati».
Forse, la sua amica Michela Murgia non sarebbe stata d’accordo.
«Non siamo d’accordo su tutto. Mi viene da parlare al presente. Sono suo amico, lei mi ha seguito io l’ho seguita in tutte le vicissitudini. Dirò una frase che la farà arrabbiare: io le volevo bene non per le sue idee, ma perché le volevo bene».
Quando verrà pubblicato l’ultimo libro nella storia dell’umanità?
«Bisogna intendersi su cosa si intende per umanità. Siamo una specie che ha bisogno di raccontare storie, le raccontavamo prima di avere il libro e le racconteremo dopo, ma anche l’homo sapiens si evolverà e la domanda è se il libro finirà con questa specie o durerà. Il sistema di trasmissione delle emozioni è sofisticato, se ne inventeremo uno più sofisticato, non mi sembra un dramma».