Corriere della Sera, 17 agosto 2024
In Bangladesh studenti al potere e caos
Tutto si è ribaltato in pochi attimi. Da perseguitati del regime a leader di governo, in una notte o poco più. «Non eravamo preparati per questo, quel giorno abbiamo sentito una grande pressione, tutti volevano sapere da noi: cosa c’è nel futuro del Bangladesh?» ha rievocato Nahid Islam, personaggio chiave della rivolta studentesca che ha travolto il regime di Sheikh Hasina, al potere da 15 anni e l’ha costretta a farsi da parte dopo aver perso il sostegno dell’esercito. Torturato dalle forze dell’ordine durante le proteste, Nahid viene ora scortato all’università in auto d’ordinanza decorata con la bandiera nazionale: è diventato ministro (delle telecomunicazioni) nel governo provvisorio guidato dal Nobel Muhammad Yunus.
Destino capovolto anche per il «banchiere dei poveri»: il 5 agosto doveva essere processato in contumacia a Dacca, in un caso di corruzione inventato dove rischiava l’ergastolo, due giorni dopo si è ritrovato premier provvisorio, proprio su richiesta degli studenti.
E sono sempre questi ragazzi a presidiare le strade di Dacca con i suoi 20 milioni di abitanti dopo che agenti e poliziotti, artefici della feroce repressione, si sono dileguati per paura di ritorsioni. Con al collo i cartellini universitari e bastoni in mano, hanno diretto il traffico, portato via le macerie di case distrutte, ripulito gli edifici saccheggiati – compreso il Parlamento —, spazzato le strade macchiate del sangue dei loro amici.
Vogliono ristabilire l’ordine e tracciare un nuovo futuro per questo Paese di 170 milioni di persone. Dici niente. Sono sopravvissuti alle violenze, hanno spodestato un’autocrate che sembrava invincibile e fatto saltare anche i vertici di importanti istituzioni – dalla Corte Suprema alla Banca centrale – ma, come in ogni rivoluzione, la parte più ardua arriva ora. «Vogliamo creare un nuovo Bangladesh», ha proclamato Asif Mahmud, il 26enne leader della protesta ora ministro di Sport e gioventù, animato dalla speranza di un rinnovamento democratico. Per questo hanno respinto gli appelli per elezioni rapide avanzate dai due principali partiti, formazioni dinastiche si sono avvicendate al potere alternandosi nei ruoli di carnefici e vittime della brutale politica del Paese, dall’indipendenza dal Pakistan nel 1971.
Il Paese si trova in un limbo, le preoccupazioni sono tante. La sicurezza innanzitutto. Il potere di Hasina era diventato così tentacolare che la sua partenza ha innescato il collasso quasi totale dello Stato. Non stupisce che dopo la sua fuga si sia propagata un’ondata di violenze e ritorsioni.
Nel mirino la minoranza indù, che vive nel terrore: è un target perché tradizionalmente ha sostenuto il partito di Hasina, considerato laico nella nazione a maggioranza musulmana. Per cercare di riportare la calma, lunedì Yunus si è recato in visita a un tempio indù: «Siamo un unico popolo con gli stessi diritti» ha ribadito. E ieri ha telefonato al premier indiano Narendra Modi, per rassicurarlo.
Nel giorno di Ferragosto però si sono verificati nuovi, violenti attacchi. Centinaia di attivisti armati di spranghe e bastoni hanno aggredito i sostenitori della premier deposta per impedire loro di raggiungere – per una commemorazione – quella che era la casa del padre di lei, il leader indipendentista Sheikh Mujibur Rahman, ucciso in un golpe il 15 agosto 1975. Chi si è recato nell’area – giornalisti compresi – è stato respinto con la forza. Il rischio che gruppi islamisti o del partito rivale di Hasina sfruttino a proprio vantaggio il vuoto creato da questa transizione è alto. Vittime di ieri (di nuovo) pronte a diventare carnefici di oggi.