Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  agosto 15 Giovedì calendario

Biografia di Steve Runciman

Storico dell’età bizantina e delle Crociate, dei Vespri siciliani, del Borneo in epoca vittoriana, viaggiatore e gentleman, attento testimone del Novecento, Steven Runciman (1903-2000) viaggiò e scrisse e insegnò per tutta una lunga vita. Era un «giovane docente a Cambridge» quando conobbe «vari traditori», talpe sovietiche come Guy Burgess e Kim Philby, brutti ceffi in maschera, «ma poiché essi mi consideravano un liberale fuori moda e superato, non ho corso nessun rischio di contagio».
Alfabeto del viaggiatore, le sue memorie, è il diario di bordo d’un viaggiatore che, insieme alle classiche coordinate geografiche, fornisce anche quelle storiche, non meno preziose: la Cambogia quand’era «ancora il Siam» come nel musical di Broadway, l’Egitto prima di Nasser, Hollywood negli anni d’oro, Istanbul prima «del grande ponte sul Bosforo» («nessun uomo, io penso, dovrebbe unire i continenti che Dio ha separato») e Parigi prima che venisse devastata dal brutalismo architettonico («il Centre Pompidou con tutte le sue viscere esposte. Mi addolorò apprendere che era opera d’un architetto inglese. Posso solo considerarlo come la vendetta dell’Inghilterra per Giovanna d’Arco»). Damasco tra le due guerre: «Improvvisamente una striscia verde brillò all’orizzonte; di colpo lasciammo il deserto per trovarci immersi in una vegetazione rigogliosa, con alberi da frutto in fiore, corsi d’acqua ovunque e le mura della città che s’alzavano sullo sfondo delle montagne. Era facile capire perché (…) si raccontasse che lo stesso Profeta rifiutasse di visitarla, poiché nessuno aveva il diritto di andare in Paradiso prima di morire».
Figlio d’un ministro inglese e della «prima donna a laurearsi con lode in storia a Cambridge e, molti anni dopo, a occupare un posto alla Camera dei Comuni accanto al marito», nei suoi viaggi Runciman vagò tra ambasciate, castelli, grandi alberghi, a volte ospite d’istituzioni universitarie, oppure di baronesse e principi, d’amici diplomatici, di scrittori e scrittrici. Era un jet set di sangue blu (prima del «jet», quando il «set» non era ancora tutto occupato dalla moderna scena pop, da tossici e gorgheggiatori e ballerine). Costruite in ordine alfabetico, il primo capitolo dedicato ai monasteri del Monte Athos, l’ultimo a Zion, Gerusalemme, le memorie di Rinciman sono un tessuto a trama fitta di paesaggi, incontri, descrizioni di chiese e palazzi, separazioni.
Una volta, in Siam, per quanto sta agl’incontri e ai paesaggi, «notai in alto nella gola i resti d’un ponte in rovina», racconta, «e chiesi perché non fosse stato riparato. Mi spiegarono che qualche mese prima, subito dopo l’apertura del ponte, era passata di notte una macchina con al volante uno scrittore comunista di nome Malraux che si guadagnava da vivere saccheggiando antichità per un mercante senza scrupoli. Aveva portato via un certo numero di pietre scolpite e bassorilievi divelti dal tempio. Era stato colto con le mani nel sacco e adesso era in carcere per furto. Le autorità, tuttavia, avevano ritenuto prudente distruggere il ponte: nessuno avrebbe potuto portare via un bottino pesante se avesse dovuto attraversare il dirupo a piedi. In seguito M. Malraux sarebbe diventato un romanziere legittimamente famoso e, una volta pentito del suo comunismo, sarebbe diventato Ministro della Cultura del Generale de Gaulle e avrebbe scritto libri che ci avrebbero educato all’arte»
Un’altra volta, viaggiando in Medioriente negli anni Venti, Runciman incontrò un amico archeologo, «profondamente turbato perché aveva sempre ammirato I Castelli dei Crociati di T.E. Lawrence, Lawrence d’Arabia, finché non arrivò a Sayun e confrontò le misurazioni indicate da quel libro con le misurazioni che aveva fatto personalmente e gli divenne chiaro che Lawrence non aveva mai effettivamente preso alcuna misurazione, ma s’era affidato esclusivamente a congetture. Molti anni dopo avrei condiviso la delusione del mio amico francese quando fui invitato a incontrare Lawrence, soltanto pochi mesi prima della sua morte, in una piccola festa data da un suo ammiratore, Sir Ronald Storrs. Mi diede un senso di diffidenza, quasi di repulsione fisica. Lasciai il raduno non appena potei educatamente farlo».
Bambino nella Londra delle suffragette, «i miei genitori» – racconta ancora – «erano favorevoli al suffragio femminile, nonostante gli stravaganti eccessi delle militanti mettessero a dura prova il loro entusiasmo per la causa. Chi mai avrebbe dato il voto a donne che facevano a pezzi i quadri della National Gallery o si buttavano davanti ai cavalli durante le corse? Fu il lavoro delle donne nella Prima Guerra Mondiale a far ottenere loro il voto, non le menadi discepole della signora Pankhurst, alla quale il mondo ha ora stupidamente eretto una statua».