Il Messaggero, 15 agosto 2024
Intervista a Gianfranco De Cataldo
«Correva l’anno 1965, avevo nove anni, quando i miei genitori mi portarono dagli zii di paese che avevano una casetta su un poggetto, a Campomarino, una località a trenta chilometri da Taranto. Passai tutta la giornata all’aria aperta, giocando con i cuginetti ma al calare della sera mi resi conto che qualcosa non andava».Ovvero?«I miei genitori mi avevano lasciato lì. Avevano lasciato il loro figlio unico dai parenti per concedersi qualche giorno da soli. Immagino che si meritassero quella parentesi di coppia ma io non la presi bene».E come reagì?«Feci un casino inaudito. Una vera scenata, urlando e sbraitando come un vitello al macello. Rimasi lì, in una stanza condivisa con i parenti ma tre giorni dopo, quando i miei genitori tornarono ed erano estremamente titubanti sulla mia reazione, io non volevo più andar via».Comincia così la chiacchierata con Giancarlo De Cataldo che si racconta riavvolgendo il nastro della memoria sino ad un’estate del 1965 e intanto, dopo aver trascorso qualche giorno sull’isola di Favignana, lì dove cura il Festival del Noir Mediterraneo, è volato in Sardegna, in attesa dell’autunno e dei nuovi impegni professionali.Giancarlo De Cataldo, cosa accadde di straordinario in quell’estate del ’65, tanto da volerla ricordare ancora oggi?«Cambiò tutto. Di colpo, a quel ragazzino di nove anni, si spalancò la dimensione selvaggia della campagna. Venivo dalla città ma in quei giorni tutto si stravolse: al mattino bevevo latte fresco, mangiando i gelsi e i fichi raccolti dall’albero e poi ancora rammento la frescura del cocomero tenuto al fresco nel pozzo artesiano e mangiato con le mani, voracemente».Era un mondo diverso?«Completamente. Senza luce elettrica, trascorrevamo intere giornate all’aria aperta che si concludevano la sera, tutti insieme raccolti nell’aia quando finalmente tirava un venticello che noi accoglievamo vicino alla radio, sentendo l’opera lirica e infine, ci si addormentava così, fra le braccia delle cuginette più grandi, in una sorta di ancestrale beatitudine».Cos’altro capì di sé stesso in quei giorni?«Quell’estate non avevo ancora scoperto la bellezza femminile ma mi travolse la forza d’urto della banda, l’andare in giro per i campi assolati con i cugini, seguiti da un branco di cani, dando la caccia alle lucertole, andando in cerca di nuove avventure e facendo i duelli con le carabine da 4mm, perché allora si poteva ancora fare Tutto ciò fu una vera rivelazione per me».C’è un’immagine che vince sulle altre nella girandola dei ricordi?«L’itinerario che facevamo per andare al mare. Un paio di chilometri percorsi sotto il sole, con la sdraio e gli ombrelloni a braccia sinché il mare azzurro e selvaggio, tutto dune e rocce, si spalancava davanti ai miei occhi. E una volta rientrato dalla spiaggia e fatta la strada inversa, si mangiava tutti insieme».E che cosa c’era di buono sul menù?«Il mangiare contadino è sempre pasta, carne, vino, fichi e olio. Poi gli adulti andavano a dormire e noi ragazzi eravamo liberi di scorrazzare per la campagna. Quel pezzo di Puglia di sessant’anni fa poteva essere come l’odierna Turchia, come uno scorcio di Palestina senza guerra. Una terra arsa e affascinate e quando c’era troppo caldo noi ci richiudevamo nella pagliara, in quelle costruzioni a secco in cui non entra il caldo e lì dentro giocavamo a carte, protetti dalla calura, con tutti i nostri cani intorno, sia quelli di casa sia quelli selvatici che si univano al branco, in una felice commistione con il mondo animale».E quell’estate nacque anche il suo amore per le storie?«C’ero già arrivato per conto mio. Già allora avevo un mucchio di storie nella mia testa e iniziava a maturare la voglia di raccontarle».Facciamo il gioco delle sliding doors: se non l’avessero mai lasciata lì, cosa sarebbe cambiato per lei?«Al 75% sarei rimasto uno studente piccolo borghese meridionale che ha poi seguito un percorso professionale nella grande città. Ma quel 25% residuo cambiò tutto, ne sono convinto ancora oggi».Perché?«In quell’estate pugliese i miei genitori mi spalancarono una dimensione rivelata che segnò una cesura nella mia crescita».Li ha poi perdonati?«Non era necessario. Mio padre e mia madre erano d’origine contadina, mi fecero studiare e per tutta la vita mi instillarono il desiderio di andare oltre e così, quell’attimo brutale di separazione l’ho poi reinterpretato come un volermi buttare nel fiume della vita, dicendomi “e adesso nuota, figlio, devi farcela con le tue forze"».E oggi in lei c’è ancora traccia di quella dimensione selvaggia?«Non so più riconoscere una tipologia d’albero ma so che su una puntura bisogna sfregare l’aloe e soprattutto, mi addestrai a fiutare situazioni di pericolo nella natura senza perdere la lucidità, qualcosa che mi sarebbe tornato utile più avanti, nella vita da adulto».Torna ancora a Campo Marino?«Oggi non più. Da pensionato, facciamo comitiva nel Salento con un gruppo di amici romani. Il Salento è un luogo molto diverso che, comunque, fa parte di me perché ho un pezzo di Puglia sempre nel cuore, anche se la mia vita ha preso altre strade».De Cataldo, dove proseguirà la sua estate del 2024?«Dopo Favignana e la Sardegna andrò nel Salento. Ma ormai noi scrittori siamo così, portiamo in giro i nostri libri come le rockstar lungo tournée infinite, portandoci dietro la penna. E a settembre si ricomincia».