il Giornale, 15 agosto 2024
Il cinema di Leni Riefenstahl
L’uscita nel 1987 delle memorie della regista Leni Riefenstahl suscitò grande curiosità. Avremmo capito dal di dentro la mentalità di un nazionalsocialista? Avrebbe raccontato senza omettere nulla i rapporti intrattenuti con Adolf Hitler e Joseph Goebbels? La lettura si rivelò una delusione. Delusione parziale, perché la vita della più importante regista del Novecento, anche se edulcorata, è comunque un passaggio fondamentale per comprendere i complessi rapporti intercorsi, nella prima metà del XX secolo, tra arte e totalitarismo. Nel caso di Leni, tra arte e nazionalsocialismo.
Sgomberiamo subito il campo da inutili quanto fuorvianti giustificazioni. La regista è stata una nazionalsocialista. Ha creduto senza riserve in Hitler, nel suo tentativo politico di restituire dignità, forza e grandezza alla Germania, eccessivamente punita, sino allo stremo, dopo la conclusione della Grande Guerra. Con astuzia Leni ha provato nelle memorie a dichiararsi vittima degli eventi. Scaricando tutto su Goebbels. L’onnipotente «ministro delle illusioni» voleva conquistarla. Lei resistette. E da lì partirono ripicche, cattiverie, ritorsioni, danneggiamenti. La regista non sapeva che i diari integrali di Goebbels erano stati sequestrati dai sovietici. Con la caduta del comunismo è stato possibile consultarli e le tante, troppo bugie di Leni sono emerse con chiarezza. Superato questo essenziale ostacolo Leni Riefenstahl è una nazionalsocialista, al di là di quello che ha dichiarato, soprattutto dopo il 1945 possiamo concentrarci su un quesito: è stata una nazionalsocialista per «convenienza» o per «convinzione»?
Per rispondere alla domanda potrebbe venirci in soccorso un nuovo documentario dedicato alla lunghissima vita della regista berlinese (nata nel 1902 e morta nel 2003), che verrà presentato alla prossima Mostra del cinema di Venezia: Riefenstahl di Andres Veiel. Bertha Helene Amalie (Leni) Riefenstahl appartiene a una famiglia benestante. Sin da bambina è attratta dalle attività sportive e dalla danza classica. A consegnarla alla storia non è però il ballo, ma l’arte della celluloide. La sua fortuna cinematografica la deve all’incontro con il regista Arnold Fanck, il più audace esponente di un genere del cinema tedesco, ma anche austriaco e svizzero: il «film di montagna». Fanck era un geologo diventato pioniere dei documentari alpini. Il primo film
che Leni interpreta come protagonista per Fanck è La montagna dell’amore (1926). Segue un piccolo gioiello: La tragedia di Pizzo Palù (1929). La pellicola ebbe due registi, e di grande livello. Oltre a Fanck, uno dei padri del cinema tedesco, Georg Wilhelm Pabst. Leni è la protagonista di altri tre lungometraggi diretti da Fanck: Tempesta sul Monte Bianco (1930), Ebbrezza bianca (1931) e S.O.S. Iceberg (1933). Nel 1932 decide che è giunto il momento di effettuare il grande salto, dirigendo e interpretando il film d’esordio: La bella maledetta.
Alla caduta di spiritualità e alla disgregazione sociale causate dalla civilizzazione e dal potere corruttore del primato dell’economia, poteva solo essere contrapposto il ritorno alla centralità della comunità nazionale, il recupero di valori quali la purezza e il collegamento originario dell’individuo con la terra. Il «film di montagna» incarna la lotta dell’individuo contro le forze della natura: l’eroe è chiamato innanzitutto a superare le proprie debolezze. Per Susan Sontag assai maldisposta con la regista di Hitler «Fanck era una irresistibile metafora visiva dell’aspirazione sfrenata verso l’alto fine mistico, splendido e terrificante nello stesso tempo, che più tardi si sarebbe concretizzata nell’adorazione del Führer». Il nazionalsocialismo rappresenterebbe il culmine dello sviluppo storico, attraverso l’«istituzionalizzazione» di un filone ideologico della tradizione tedesca ostile alla modernità. Ma è un grave fraintendimento. Leni Riefenstahl non è assolutamente contraria alla modernità. Quindi per comprendere il passaggio dal «film di montagna» al «film nazionalsocialista» è opportuno avvicinare l’opera della regista al composito «drappello» di appartenenti alla «rivoluzione conservatrice»: Thomas Mann, Oswald Spengler, Carl Schmitt, Ernst Jünger, Martin Heidegger, Jacob Burckhardt, Joann Jacob Bachofen, Arthur Moeller van den Bruck, Ernst von Salomon, Stefan George, Gottfried Benn, Werner Sombart, Romano Guardini, Max Scheler e Hugo von Hofmannsthal. Intellettuali di diverso orientamento, destinati con l’avvento del nazionalsocialismo a imboccare strade difformi. Sono però espressione di un clima intellettuale di opposizione alla cultura dominante del proprio tempo, pregna di scientismo, positivismo, utilitarismo, materialismo, progressismo e marxismo. E di una lotta alla decadenza determinata dalla democrazia liberale.
Leni è «moderna» nell’utilizzo dello strumento più innovativo della modernità la cinematografia e al tempo stesso in sintonia con il «conservatorismo» tradizionale, convinta della necessaria esaltazione dell’idea di popolo e nazione. Progressista nella tecnica; antiprogressista nell’ideologia. Il suo cinema realizzato nell’età di Weimar e nel Terzo Reich in fondo può essere definito una visione estetica della tecnologia. Quest’ultima, diventata manifestazione della «volontà di potenza», rappresenta un passaggio indispensabile per il rinnovamento della politica e per la creazione di un nuovo tipo di umanità. Alla Germania spetta un’epocale missione: iniettare l’anima dentro la fredda meccanica della tecnologia. Nel «film di montagna» Leni aveva riscoperto la «centralità del corpo», che a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento ha nella Germania l’epicentro. La cultura del sole e della luce, la ginnastica, il nudismo, il movimento giovanile per la riforma della vita, la virilità, trovavano nella natura il loro logico corollario. Il rapporto con la natura è il «simbolo di un mondo sano» (Leni lo aveva appreso da Fanck) in grado di rigenerare l’individuo e la nazione. Il crogiolo in cui Leni Riefenstahl si forma è il «film di montagna», e il successo del genere tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta coincide con l’affermazione politica del nazionalsocialismo.
Il magmatico universo della «rivoluzione conservatrice» e il nazionalsocialismo hanno un punto di contatto nel rifiuto della modernità declinante. Il nazionalsocialismo aveva bisogno di costruire un’innovativa «estetica della politica». Sia Hitler che Goebbels speravano di arruolare il più «modernista» e «conservatore» dei registi di Weimar, Fritz Lang. Quest’ultimo declinò l’offerta. Venne rimpiazzato da Leni Riefenstahl. Alla quale bastarono due film di montaggio: Il trionfo della volontà (1934) e Olympia (1938) per trovare una perfetta sintonia con il «romanticismo d’acciaio» che Goebbels andava vagheggiando. Leni non fu una nazionalsocialista per «convenienza», anche se dal sistema ricavò grandi vantaggi. Lo fu per «convinzione». Heidegger voleva diventare il führer della filosofia della «nuova Germania», Leni della «nuova cinematografia». Erano convinti di riuscire nell’impresa. Dovettero ricredersi. Il mondo ad entrambi cadde rovinosamente addosso. Provarono a pulirsi dalla polvere delle macerie. Ci riuscirono malamente.
La vita, pur se lunga, corre veloce. Resta l’opera. Edificata nella propria epoca. Una preziosa traccia del tempo con cui possiamo confrontarci, cercando di capirlo, senza ricorrere a demonizzazioni o nascondimenti.